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“Giacomo Leopardi non aveva il Morbo di Pot”: spunta la verità che riapre il cold case sul poeta

Giacomo Leopardi non aveva il Morbo di Pot:

«Non era un depresso, non era uno sfigato come direbbero i ragazzi di oggi, non era affetto da malattia tubercolare ossea». Erik Sganzerla, 68 anni, da venticinque direttore della Neurochirurgia dell’ospedale San Gerardo-Università Bicocca, parla di Giacomo Leopardi e riapre un cold case, ricostruendone la cartella clinica.

Lo fa nel volume «Malattia e morte di Giacomo Leopardi» che presenterà mercoledì alle 20,45 nell’aula magna del liceo Mosè Bianchi in via della Minerva. Sganzerla non ricorda esattamente a quando risale il suo interesse per Leopardi: «Di certo sui banchi del liceo Beccaria di Milano. C’era chi stava dalla parte di Manzoni e chi di Leopardi. Io non ho mai amato troppo Manzoni».

Negli anni poi, ha sempre affiancato la carriera di neurochirurgo (ha fatto parte del team di periti nel processo sulla morte di Stefano Cucchi), alla passione per la letteratura dell’ Ottocento e al collezionismo di libri rari. Un paio di lettere di Leopardi sono nella sua collezione e sono pubblicate nel volume, così come una rara prima edizione, corretta a mano dallo stesso Leopardi, di «All’Italia e Sopra il monumento di Dante».

Partendo dalle 1.969 lettere che compongono la corrispondenza del poeta il neurochirurgo ha ricostruito le fasi della malattia, l’insorgere dei primi sintomi, la loro evoluzione, arrivando a formulare una nuova affascinante ipotesi che smonta quella finora più citata di «Morbo di Pott» o spondilite tubercolare.

«Ho seguito un metodo di indagine squisitamente clinico – spiega il neurochirurgo -, ho analizzato i sintomi di cui parla nelle lettere tra cui disturbi urinari, deformità spinale, disturbi visivi, astenia, gracilità, bassa statura, disturbi intestinali e complicanze polmonari e cardipolmonari. Piuttosto che pensare a tante diverse patologie ho ricondotto questo quadro ad un comun meccanismo degeneratore». Secondo il medico monzese, l’ autore dei «Canti» e dello «Zibaldone» era affetto da una malattia genetica rara: la spondilite anchilopoietica giovanile che ancora oggi ha un’incidenza di 5 o 7 casi ogni 100 mila persone.

«Dalle lettere sappiamo che Leopardi non è nato gracile e gobbo, anzi il fratello Carlo lo descrive come un bambino vivace e leader nei giochi – spiega Sganzerla -. La deformità spinale, una cifosi dorsale, insorge dopo i 16 anni come si trova conferma nelle parole del marchese Filippo Solari che scrive di aver lasciato “Giacomino di circa 16 anni sano e dritto” e di averlo ritrovato dopo 5 anni “consunto e scontorto”». I celebri sette anni di studio «matto e disperatissimo» nella biblioteca paterna contribuirono ad aggravare la sua deformazione alla quale si aggiunsero i problemi della vista a fasi alterne, disturbi intestinali e complicanze cardiopolmonari che lo portarono alla morte a 39 anni, il 14 giugno 1837. «Con tutta probabilità – conclude il medico – avvenuta per scompenso cardio respiratorio». L’indagine esclude soprattutto la diagnosi di «depressione psicotica» come riportano invece studi recenti.

«La sua malattia ha influenzato i tratti caratteriali, ma non si può certo parlare di depressione in un uomo che come Leopardi viaggiò molto fino alla fine dei suoi giorni, continuò a creare moltissimo. Aveva tanti progetti da realizzare ed ebbe sempre il coraggio di proiettare il suo sguardo oltre gli ostacoli».

Fonte: Rosella Redaelli per Il Corriere della Sera

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