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Marco Paolini: “Ho ucciso una donna e non mi perdono. Come vivo adesso…”

Marco Paolini: “Ho ucciso una donna e non mi perdono. Come vivo adesso…”

Marco Paolini: “Ho ucciso una donna e non mi perdono. Come vivo adesso…”. L’ attore a luglio del 2018 provocò un incidente nel quale una donna perse la vita. Quasi un anno dopo la tragedia, patteggiata una condanna a un anno di reclusione per omicidio stradale, pena sospesa con la condizionale, Marco Paolini racconta cosa successe quel giorno. E lo fa attraverso una lunga intervista rilasciata ai microfoni de ‘Il Corriere della Sera’.

L’incidente sulla A4 Milano-Venezia, vicino a Verona, tamponò con l’auto che guidava l’utilitaria di due amiche, buttandola fuori strada. Gravemente ferita, Alessandra Lighezzolo, che aveva 53 anni, aveva due figli e mandava avanti un negozio di abbigliamento per bambini, non ce la fece. Due giorni dopo morì.

Da allora, il regista e attore vive col peso di avere causato una perdita irrimediabile. E ricorda passo passo ai microfoni del quotidiano.
«Era il pomeriggio di martedì 17 luglio dell’anno scorso. Il sabato prima avevo finito uno spettacolo, Il calzolaio di Ulisse al Teatro Romano di Verona. Tre serate, precedute da un intenso periodo di prove. Era andata bene. A parte la tosse».

Cioè?
«Arrivava mentre ero sul palco. Ogni tanto. Disturbava. Ero molto infastidito. Me la tiravo dietro da tempo. Finito lo spettacolo, pensavo, dovrò occuparmene. Una tosse secca. In testa. Pensavo fosse legata a un reflusso gastrico. O allo stress. Complicato dal fatto che ciclicamente ho attacchi di un’asma cronica. Tenevo duro rinviando le visite mediche a dopo».

Insomma, finalmente tornavi a casa…
«No. La domenica ero andato direttamente in Trentino, nelle valli Giudicarie, per un seminario di due giorni con un amico e collega. Lo consideravo, con qualche passeggiata, un momento di decantazione. Sono rimasto lì fino a martedì mattina. Quando finalmente sono partito per tornare a casa e stare qualche giorno con la mia famiglia».

Che ore erano?
«Forse l’una e mezzo. Forse le due. Lungo la strada, scendendo, verso Rovereto ho avuto un paio di colpi di tosse. Quelli che per un attimo ti mandano in apnea. “Madonna, ho pensato, piàn!” Prima di entrare in autostrada mi sono fermato a mangiare un panino. E sono ripartito. Rinunciando alla fumatina con la pipa per non stuzzicare la tosse…».

E alle quattro e mezzo del pomeriggio stavi tra Verona Sud e Verona Est…
«C’era molto traffico. Impossibile correre. Si andava in colonna. Viaggiavo sulla corsia centrale. A un certo punto mi è tornato un attacco di tosse. E lì, come ho potuto rivedere nei fotogrammi di un filmato delle telecamere fisse di Autostrade, mi sono spostato sulla corsia di destra.

E di colpo mi sono visto addosso alla macchina di Alessandra Lighezzolo e Anna Tovo. Loro erano su una 500, io su una station wagon. Un camion, in confronto. L’ho speronata. E l’ho vista volare sulla strada di sotto, sulla tangenziale. Dietro una siepe. Rovesciata. Per fortuna il traffico di sotto si fermò quasi subito. Senza ulteriori tragedie. Eravamo lungo una piazzola d’emergenza. Mi sono fermato, ho dato l’allarme. Tutto intorno sembrava normale».

In che senso?
«Il traffico in autostrada continuava come nulla fosse successo».

Si disse che tu avevi in mano il cellulare…
«No. Non stavo telefonando. E neppure ricevendo messaggi. Dato l’allarme la prima cosa che ho fatto è stata quella di consegnare appunto il telefonino alla Stradale. Loro hanno potuto confrontare tutti i dati. L’ultima telefonata l’avevo fatta a mia moglie qualche minuto prima per dirle che arrivavo».

Alla giornalista dell’Arena, a botta calda, dicesti che l’avevi appena posato, il cellulare…
«Intendevo quello che ho detto prima. Ricordo, quello sì, il rumore del cozzo contro l’utilitaria. E ricordo di aver ammesso subito che era stata colpa mia. Che ero io, il responsabile. Io ad avere sbagliato. Una signora di là della siepe, vedendomi molto agitato, mi gridò di non muovermi.

Il resto, scusa, preferisco non raccontarlo. Ero lì, bloccato, stupito di non essermi fatto assolutamente niente mentre avevo gravemente ferito altre persone. Era una cosa che mi rendeva furibondo. Era ingiusto. Spaventoso».

La sproporzione…
«Si. Insopportabile. Tutti sappiamo che cose così possono succedere. Che una distrazione, un errore, una svista possono creare danni irreparabili. Tutti gli amici hanno provato a tenermi su ripetendomelo. Ma non hai modo di prepararti a questo. Quando succede… Undici mesi dopo quel giorno non è cambiato molto. Posso provare a capire me stesso. Ma non riesco a perdonarmi».

Perché hai deciso, oggi, di rompere il silenzio?
«C’è una sentenza. A mio carico. E c’è scritto nero su bianco: “omicida stradale”. Capisco la parola usata dal legislatore. La capisco. Bisogna rendere le persone consapevoli del rischio che fanno correre agli altri quando guidano. È giusto. Ma la parola “omicida”…».

È pesantissima da portare addosso.
«E non ha fine. La condanna a un anno di carcere con la condizionale, la sospensione della patente e il resto sono quanto prevede la legge. Ho ammesso di avere torto, ho patteggiato. Ma sono sicuro che le vittime di questo incidente che ho provocato non saranno dello stesso avviso. Li capisco.

Se io pensassi a qualcuno che mi ha portato via la donna che amavo nessuna pena mi sembrerebbe adeguata… Farei fatica ad accettare una cosa così accaduta a causa della negligenza… Perché questa è la mia colpa: ne-gli-gen-za. Avevo già vissuto, in qualche modo, un’esperienza simile».

Cioè?
«Tanti anni fa facevo teatro con una compagnia di ragazzi, la notte tornavamo tardissimo. Uno di questi amici, una notte, aveva travolto una moto guidata da un poveraccio che aveva sbandato. Quando lo seppi, dissi a me stesso: fai in modo che non ti succeda mai. Ho la patente da quando avevo 18 anni. So che la stanchezza fa parte della vita.

Da anni, se sono stanco, mi fermo e faccio una sosta. Anche due. Per sgranchirmi le gambe e fare quegli stupidi esercizi che si fanno nei piazzali degli autogrill. Andando incontro montagna ho imparato che gli incidenti capitano più spesso sulla strada del ritorno, quando già ti senti un po’ casa. Mi sono sempre detto: mai dare troppa confidenza alla strada di casa. Eppure…».

Eppure?
«È successo lo stesso. Ero sulla strada di casa».

La cosa più difficile?
«Tante. Ma lasciamo stare. È inevitabile che io, non potendo sparire dato il lavoro che faccio, parli di me. Ma tutto ciò è grottesco. Perché parlando di me…».

…parli di te vivo…
«Esatto. Parlo di una cosa fantastica. La vita. E dentro la vita anche le cose più orribili ti fanno attaccare alla vita. Anche se dentro non riesco a perdonarmi… Non ce la faccio. So che tra me e me devo ancora fare un discorsetto. Non posso perdonarmi da solo. E non ho fretta di arrivarci. Non c’entra con la giustizia del tribunale. Con la sentenza. Con l’omicidio stradale. Il fatto è che quando ti rendi conto che una cosa è irreversibile… Insomma, niente è più come prima».

Hai provato a incontrare le famiglie?
«Ho scritto privatamente a loro. Pur immaginando di essere, per loro, non voluto e molesto. Non ho ricevuto risposta. Capisco. L’avrei fatto anch’io. Poi ho scelto il silenzio. Ho pensato che qualunque cosa avessi detto sarebbe stata poco rispettosa nei confronti delle famiglie. Volevo anche non salire sul palcoscenico…».

Hai avuto il dubbio di chiudere?
«Se avessi fatto un altro mestiere, in quel momento, sarebbe stato meglio. È l’unico momento della mia vita in cui ho maledetto quello che faccio. Perché il mio mestiere è un atto pubblico. Non posso starmene da una parte e scrivere un libro… È un atto pubblico. È un problema. Non solo salire sul palco e dire qualcosa che fa ridere la gente ti pesa. Anche dire qualcosa di intelligente ti pesa. Ti chiedi se sei ancora credibile. Non ti senti più come prima. Il mio lavoro non consente la maschera. Vado lì io. Col mio nome, il mio cognome, la mia storia… E la gente viene a teatro per vedere me. Ascoltare le mie storie».

E alla prima risata ti senti stonato…
«Ti ripeto: non solo. Anche provocare qualunque tipo di emozione, non solo il riso, pesa. È vera? È falsa? E la commozione? È dovuta alla storia raccontata o alla ricerca, fosse pure involontaria, di chiedere al “tuo” pubblico un po’ di commiserazione o complicità? “Poareto” e “maledetto” sono due parole legate. Si sarebbero potute usare tutte e due con me, sul palcoscenico. E avrebbero potuto essere tutte due legittime. Ma un conto sono io, un altro il mio lavoro».

Quindi?
«Il primo istinto è stato di dire a me stesso: “Tasi!” Taci. E ho cancellato tutte le date programmate in tempi brevi. Unica eccezione, impossibile da spostare perché coinvolgeva troppe persone in una data speciale, la commemorazione in cima al monte Tomba della Grande Guerra, a cento anni dalla fine della carneficina, in una pièce teatrale con Simone Cristicchi, “Senza vincitori né vinti”, scritta anni fa a quattro mani da Francesco Niccolini e dallo stesso Mario Rigoni Stern».

Uno sfogo, però, uscì…
«Un errore. Un giornalista salì al monte Tomba per seguire le prove. Mi fidai. Colpa mia. Anche perché avevo giurato a me stesso che non avrei parlato di questa tragedia causata da me fino alla chiusura del processo. E finché non avessi cercato ancora una volta, con un’altra lettera scritta e riscritta dieci volte senza mai trovare le parole giuste, di parlare con le famiglie».

Ancora niente?
«No. È una scelta che rispetto. Ripeto: anch’io al posto loro, probabilmente, farei lo stesso. Spero che nel tempo… Chissà…»

Hai ripreso a lavorare, comunque.
«Cosa dovevo fare? L’unico modo per sparire era di cambiare mestiere. Ci ho pensato. Mi sono risposto di no. Questo ho, di lavoro. Non ne ho altri. Credo sia anche una questione di rispetto di me stesso. Non sarebbe stato giusto scappare. Ho cercato di andare avanti. Avendo chiaro che niente sarà più come prima. Ho eliminato tutti i lavori in cui ero solo, ho rispettato le date in cui lavoravano altre persone».

Una decisione obbligata…
«Ho “scelto” di farlo. Perché mi sono reso conto che più tempo avessi passato a tormentarmi nella mia stanza e più difficile sarebbe stato riprendere. Non avevo alternative. Ho una famiglia. Un bambino».

Se n’è accorto, il piccolo?
«Ha quattro anni. Ma come possono immaginare tutti i genitori ha capito tutto. Tutto. Ha messo insieme una sua storia. Ogni tanto esce una parola più grande della sua età. Uno sguardo come dire “ci sono io, non preoccuparti”».

Il tuo pubblico come ha reagito?
«Ho cercato di distinguere. Di fare il mio lavoro come prima. Hai il magone? Te lo tieni. Sarebbe intollerabile salire sul palco personalizzando i tuoi sentimenti privati a uso delle persone. Ho trovato molti che ci tenevano a farmi sapere della loro comprensione. Ma si chiudevano subito. Forse perché si accorgevano che mi chiudevo a riccio. Non so come dirlo: mi pare sproporzionato venir a consolare chi la vita ce l’ha. Queste persone lo fanno con la miglior intenzione. Probabilmente lo farei anch’io. Ma è difficile accettare gesti di comprensione quando hai la consapevolezza di aver causato una cosa irreversibile. Ogni selfie è stato una sofferenza».

La tosse?
«Dopo qualche tempo un medico dell’ospedale ha avuto un’intuizione. Abbiamo controllato. Avevo un polipetto in gola. Mi hanno operato. Era poco più che una piuma piantata in gola. Combinata con l’asma mi aveva reso quel periodo durissimo. Ora pare tutto a posto».

Certo che tornare a fare il teatro civile…
«Ecco. È ovvio che chi fa il mio lavoro a volte prende posizioni nette. Denuncia. Accusa. Avere commesso un errore così grave ha messo in discussione dentro di me la legittimità di puntare il dito. Da che pulpito! Come fai ad esercitare una funzione critica? Forse non lo puoi fare più. Forse devi stare zitto. Forse la tua pena è il silenzio».

Come per i vecchi brigatisti?
«No, non credo. Le mie scelte teatrali sono però condizionate. Non perché io tema il giudizio degli altri. È il mio giudizio su me stesso che ha subito un duro colpo».

Nel tuo errore non sei stato malmenato come altri…
«È vero. Da nessuno. Si vede che negli anni un po’ di rispetto me lo sono guadagnato. Sono però poco social quindi non so se sul Web mi abbiano rovesciato addosso veleni. È tutto secondario davanti al peso di non poter restituire la cosa più importante. “Omicida stradale”. Anche se non te lo scrivono sulla patente, ogni volta che incappo in un controllo dei documenti (all’aeroporto, in treno…), mi sembra di vederlo scritto negli occhi di chi li sta verificando. Non sento il bisogno di cancellare questo, sento di dovermi riscattare. Spero di aver tempo per farlo».

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