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Miriam Leone si racconta: “Da piccola avevamo importanti difficoltà economiche. In un certo periodo abbiamo dovuto tirare la cinghia”

Miriam Leone si racconta. L’attrice parla a tutto tondo in una lunga intervista rilasciata all’inizio di agosto ai microfoni della nota rivista Vanity Fair

Miriam Leone si racconta. L’attrice parla a tutto tondo in una lunga intervista rilasciata all’inizio di agosto ai microfoni della nota rivista Vanity Fair

Idiosincrasia alle regole prestabilite, capitolo primo.
«A scuola non volevo portare il grembiule e così architettai un piano. Andai in bagno, lo nascosi e tornai in classe come se niente fosse. Lo ritrovarono, mi rimproverarono e mi spiegarono seri seri l’importanza di indossarlo. Tornai a casa e capii subito che avrei dovuto fare di più: il giorno dopo lo ridussi in piccole strisce, lo buttai direttamente nel cesso e tirai lo sciacquone. Combinai un gran casino: si intasò tutto e l’acqua cominciò ad allagare pavimento e corridoi. Presa dal panico fuggii in strada. Avevo 4 anni e per la prima volta mi ritrovai da sola, sul corso del paese, senza sapere esattamente dove andare. Mi recuperò non so chi e anche lì, lezioni e mòniti: “Miriam, il grembiule serve a riconoscerci, a essere ordinati, puliti e tutti uguali”. Io uguale agli altri non volevo essere e grazie agli scarti delle mie zie, tutte indistintamente sarte e ricamatrici, avevo già un guardaroba pazzesco che ai miei occhi valeva più di tutte le divise che mi obbligavano a indossare e delle quali già allora faticavo a capire il senso».

Miriam Leone parla con i tassisti, mangia alici con le mani e ride spesso.
«L’altro giorno a Trieste ho domandato all’autista cosa pensasse dei matrimoni misti e lui mi ha risposto che aveva sposato una ragazza di Benevento».

Usa parole come «schiva» o «defilata», legge Bufalino, cita cantautori e strofe a memoria.
«Per un lungo periodo l’unico capace di farmi venire i brividi è stato De André»

Del passato, invece, non ha dimenticato niente. Ricorda esattamente il giorno in cui ha rischiato di morire.
«Amo immergermi quando piove, ma una volta mi spinsi troppo al largo e non riuscendo ad andare controcorrente temetti davvero di non riuscire a tornare. Durante una mareggiata fortissima mi aggrappai a uno scoglio affiorante, ferendomi dalla testa ai piedi, tornando a riva esausta e senza fiato prima di essere cazziata dai miei e prenderle al piano di sopra perché, lo saprà, al tempo si usava così. Venivi avvertito, ma se andavi fuori dal seminato, erano affari tuoi».

E ha impresso a fuoco l’istante in cui ha deciso definitivamente di vivere.
«È stato quando ho deciso di proteggermi. Se cerchi di rendere tutti felici ti metti da parte, ma quando cominci a dire di no, a scontentare gli altri e a pensare di più a chi sei e a cosa vuoi, allora, forse, stai imparando ad amarti».

È difficile amarsi assemblando valigie in continuazione?
«È difficile trasformarsi in inquilini modello. Nel mio frigo non manca mai un limone da buttare. Nasce giallo, diventa verde, poi fa la muffa. La vita da single, signori, è così. Le zie però, il corredo di nozze tutto ricamato a mano, stupendo, lo hanno messo coscienziosamente da parte. Un giorno, dicono, me lo daranno: ma solo se mi sposo. Non demordono, loro».

Ha detto «signori». Si rivolge spesso a un uditorio immaginario?
«Ero una bambina molto distratta e sognante, perennemente alle prese con un universo parallelo fatto di canzoni inventate e poesie. Ero il manifesto vivente di quel verso di Cocciante: “Con i secchi di vernice coloriamo tutti i muri”. Non faccia quell’espressione. Non mi dica che non ha mai cantato a squarciagola Celeste nostalgia o Bella senz’anima. Sia onesto».

Le ho cantate.
«Allora eravamo in due. A me piaceva mettere insieme parole e musica. Fin da bambina creavo opere, balletti, canzoni, piccole sceneggiature».

Le ha conservate?
«Sono disordinatissima e non so cosa sia un archivio. A casa non ho neanche una mia vecchia foto e di datato ci sono solo le mura. Abito in un palazzo del secolo scorso: mi ostino a vivere in appartamenti decrepiti che ai miei occhi esercitano un fascino bohémien. L’impianto elettrico è spiritista. Si spostano le spine, esplodono le lampadine, ogni tanto si fa buio».

Quanta luce c’era nella sua adolescenza?
«Chi ha avuto un’adolescenza felice? Avvengono metamorfosi brutali che per le donne iniziano col sangue. È un impatto violento con la vita, con la sua parte animale e mentre ti dici: “Aspettate, calma, cosa sta succedendo?” improvvisamente intorno a te cambia ogni cosa. Cambia il tuo odore, cambiano i tuoi lineamenti, cambia la relazione con gli altri: “Attenta Miriam”, mi dicevano, “da questo momento puoi avere dei bambini”. Io a 12 anni non sapevo quasi come si facessero, i bambini».

E cosa sapeva?
«Che in questa lotta con l’idea del conformismo obbligato e con il nuovo sé avrei sofferto. Quando sei adolescente sei implicitamente invitato a uniformarti. Sai che non puoi permetterti stravaganze. Ne basta una e diventi quello strano. Essere considerati strani può essere duro, può farti sentire escluso».

Lei si sentiva strana?
«Non è che mi sentissi strana, io ero quella strana. Quella che a 14 anni leggeva Mallarmé e Baudelaire, si incupiva con Montale e con il male di vivere e nello scontro con la realtà soffriva. A quell’età fai tante cose. Alcune per farti male, altre perché non ti piacciono, ma ti affascinano comunque. Le fai per spostare l’orizzonte qualche metro più in là, per conoscerti, per capire quel che ami e quel che detesti. Sperimenti».

Sperimentare è stato importante?
«Fondamentale per crescere senza rimpianti».

Era solitaria?
«Molto. Stare da sola non mi dispiaceva, ma non riuscire a condividere il mio mondo con nessuno al tempo stesso mi pesava».

Perché non condivideva il suo mondo con i coetanei?
«Mi vergognavo. I miei interessi erano lontani da quelli del branco, quindi fingevo di essere chi non ero. Le racconto una cosa che non ho mai detto».

Dica.
«Vengo da una famiglia a cui il cibo non è mai mancato, ma che durante la mia infanzia ha avuto importanti difficoltà economiche. In un certo periodo abbiamo dovuto tirare la cinghia. Era l’epoca in cui sembrava che per decreto divino ogni ragazzo dovesse indossare una maglietta Calvin Klein e a me, quella maglietta, i miei non potevano proprio comprarla. Alla fine agguantai un’imitazione che misi con la vergogna di chi può essere scoperto da un momento all’altro. Pensavo in continuazione che qualcuno mi avrebbe smascherato.  Sembra stupido, ma si trattava di angosce terribili, angosce da insicurezza, angosce da batticuore».

La maglietta che fine ha fatto?
«L’ho buttata e ho continuato a vestire con i miei abiti su misura. Fino a quel momento avevo avuto vestiti bellissimi, per i quali sceglievo anche l’ultimo bottone, ma con quella maglietta volevo essere semplicemente come tutti gli altri, non ci riuscivo e così ho tentato in vari modi di annullarmi. Poi, prima di perdermi, ho riabbracciato me stessa e quell’unicità non mi è sembrata più stranezza, ma forza».

Cos’altro o chi altro le faceva battere il cuore?
«C’era un ragazzo più grande che piaceva a me e alle mie amiche. Avevamo più o meno 13 anni, ma lui non si concedeva a nessuna. Ci incontravamo sul muretto, davanti a una fontana, facendo scorrere le ore nella speranza di rivederlo a tarda sera, dopo il tramonto, quando ogni cosa, a partire dai sogni, sembrava possibile».

E lo rivedeva?
«Avevo il coprifuoco e dovevo rientrare presto. Quindi tornavo a casa, aspettavo che i miei genitori si addormentassero e poi a quel solo e unico scopo uscivo furtivamente dopo la mezzanotte».

Sente di aver perso tempo?
«No, altro tempo è stato perso e per fortuna non lo ricordo quasi più».

Che famiglia è stata la sua? Sua madre Gabriella lavora ancora in comune, suo padre Ignazio era dirigente del Pci.
«Inesatto. Col carattere, l’onestà e il vizio di dire la verità che ha non avrebbe mai potuto fare il dirigente. In altri anni ha militato e ancora oggi se va sul suo profilo Facebook lo troverà impegnato a denunciare i palazzi pericolanti e le aiuole secche di Aci Castello. Ci ha sempre insegnato che la collettività è più importante del singolo».

Erano severi i suoi?
«Ho vissuto con grande libertà, ma forse, anche a causa del senso di colpa figlio di un riflesso cattolico, la filosofia di base era: “Non si chiede mai un favore a nessuno”. Me ne sono liberata da poco, prima dovevo fare tutto da sola. Adesso se ho una valigia da 800 chili domando aiuto: “Il mio bicipite come vedi non ce la fa, mi daresti una mano?”. A casa nostra era inconcepibile. Il mantra era chiedere sempre scusa, non disturbare, stare al proprio posto».

Esempi?
«Da noi la Coca-Cola era un lusso demandato alle sole feste.  Nel frigo di Zia Graziella invece non mancava mai. Io lo sapevo ed ero contenta, ma i miei mi ammonivano: “Quando te la offre la prima volta tu di’ di no”, se torna a chiederti se la vuoi allora puoi accettarla. Naturalmente Zia Graziella dopo il mio no non tornava alla carica  e io rimanevo a bocca asciutta. L’estremizzazione educativa ha rappresentato un limite, una piccola sofferenza».

Ha sofferto anche per amore?
«Ho sofferto per amore prima di capire cosa fosse l’amore. Sono cresciuta tra i libri e la letteratura e le donne dei romanzi che leggevo, ovviamente, erano tutte sventurate. Sventurate loro e disgraziatissime le eroine dei cartoni animati della mia generazione, la generazione Bim Bum Bam. Pollyanna, Lady Oscar, Georgie. Tutte più o meno abbandonate o orfane, così abbandonate da farti sentire in colpa per essere stata felice o addirittura di essere viva».

L’amore era sempre letterario, platonico e immateriale?
«Certo. Immaginato, blandìto, venerato e accompagnato da pianti infiniti verso persone con le quali, fuor di metafora, non ci sfiorammo neanche un dito».

Non è detto che turbi di meno.
«Anzi, più mancava un contatto fisico, più mi struggevo. L’amore a una certa età era così: patimento e dolore. “Non sarò mai all’altezza”, mi dicevo mentre il bello di turno, ignaro, mi passava davanti in motorino».

Poi cosa succedeva?
«Che grazie a dio, a un certo punto, arriva la stanchezza. Ti snebbi, ti stufi e un momento prima di cadere nel precipizio, come spesso mi capita, ti salvi. “Che lo aspetto a fare quello che non mi vede”, ti sussurri, “quando fuori c’è un mondo fatto da milioni di persone?”».

E oggi per amore soffre ancora?
«Non più perché riesco a volermi più bene. Non mi infliggo tormenti o inutili scomodità sentimentali. Esplodo prima e dico: “No, non fa per me”. Rifiuto l’offerta e vado avanti».

Quando si è innamorata l’ultima volta?
«Qualche tempo fa».

Qualche tempo  fa suona come tanto tempo fa.
«E anche se fosse? A lei capita di innamorarsi ogni 10 minuti? A me no. L’amore romantico, magari corrisposto, è una fortuna che capita poche volte. Quello fugace è tutta un’altra storia che non sempre vale la pena vivere. In assoluto poi mi innamoro di tante cose, poche sere fa, in cielo c’era una luna da perdere la testa. Sono rimasta lì a guardare. Rapita, vinta, innamorata».

Cos’è rimasto della Miriam di ieri?
«Una certa inclinazione a non stare mai ferma. Ero e sono un fuoco perpetuo, per me ogni volta si ricomincia da zero. Nelle cose che faccio metto tutta me stessa e a volte capita anche di farsi male».

Ben nascosta dai capelli, si scorge una cicatrice sulla fronte.
«Me la sono spaccata, sempre nello stesso punto, per ben due volte. Purtroppo non c’è grande eroismo e i miei incidenti non sono poi così gloriosi. Con gli scarti delle zie, come le ho detto, mi facevo i vestiti da sola. Disegnai un tutù e cominciai a girare su me stessa nel ballatoio di casa. Avevo 4  anni e a forza di girare atterrai direttamente sulla porta della lavanderia, in ferro battuto. Corsa all’ospedale e ricucitura del medico di turno. Con l’occhio vedevo l’ago e il filo, come un’onda, andare avanti e indietro. Avrei voluto dire basta, urlare, ribellarmi: ma la paura mi bloccò completamente. Quando sento giudicare le persone per la loro incapacità di reagire mi addoloro sempre un po’. Chi sale in cattedra non sa di cosa parla. Bisogna esserci passati. Il panico blocca, ti rende immobile, ti gela».

E la seconda volta?
«Era Carnevale, stavo ballando. Un bambino mi spinse e finii sul freno della bicicletta. Mi ricordo la corsa in ospedale e le raccomandazioni di mio padre: “Il fazzoletto bianco, Miriam, tienilo fuori dal finestrino”».

Quel bambino le chiese scusa?
«Macché. Venne scagionato con formula piena: i miei, credo per non produrre traumi a venire con il genere maschile, evitarono di eleggere un colpevole». (Sorride).

Era spericolata?
«Non lo ero e non lo sono neanche adesso, ma ho bisogno della mia libertà. E la libertà è anche pericolo, sfida, rischio, limite da superare. Quando eravamo bambini affrontavamo gli scogli buttandoci in mare. Da un lato avvertivo tanta paura e dall’altro sapevo che superato quel timore avrei provato qualcosa di bello. A giugno partivamo dalle rocce più basse e poi a settembre ci gettavamo dal quarto piano di un palazzo. Una volta uscii dall’acqua con una coscia totalmente striata di sangue. Sentii un vociare indistinto: “Non ha saputo fare il tuffo” e prima che diventasse lazzo trovai subito il guizzo: “Sono state le meduse”. Non era vero, però siccome ero adolescente e dovevo apparire invincibile e fichissima, perché a sembrare sfigati in certi contesti è sufficiente un solo attimo fatale, dissi una bugia. La rispettabilità sociale, purtroppo, è una cosa con cui fai i conti fin dal cortile delle scuole elementari».

Mentire fu un colpo di genio?
«Magari. Al massimo fu un riflesso istintivo».

In Amici miei Philippe Noiret sostiene che il genio sia fantasia, colpo d’occhio e capacità d’esecuzione.
«Se mancano le ultime due caratteristiche, far leva sulla fantasia è importante. Da sempre amo inventare storie».

Che cos’è per lei la libertà?
«La scomodità. Mantenermi fuori dalla mia comfort zone fa viaggiare la mente e stimola la fantasia. Pensare di non aver bisogno veramente di niente mi fa apprezzare tutto quello che ho, non mi fa disperare su ciò che non ho e soprattutto non mi spinge a provare invidia. Se vedo un bel giardino nella casa del vicino prendo la zappa e provo a crearne uno meraviglioso anche per me, ma non distruggerei mai quello dell’altro per star meglio. Se un altro è felice, io mi rallegro. Per me è libertà anche questa».

Emanciparsi dall’incubo delle passioni, diceva Battiato.
«Emanciparsi dall’incubo delle passioni va anche bene, a patto di trovare un equilibrio e mantenere la capacità di provare l’incanto. Nonostante le mazzate, le delusioni, le volte in cui ti sei fidata troppo di qualcuno e quelle in cui, sbagliando, ti sei invece fidata troppo poco, l’incanto è fondamentale».

Dove lo trova?
«Nel coraggio del cambiamento».

È difficile cambiare?
«Quando stiamo bene e siamo felici, difficilissimo. Ci diciamo: “Vorrei che questo momento durasse per sempre”. Ma per sempre non dura niente. Ne dubita anche quel gran filosofo di Baglioni: “Se c’è stato per davvero, quell’attimo di eterno che non c’è”, canta. Io sono d’accordo con lui».

Ricorda i suoi momenti di cambiamento?
«Esistono epifanie in cui ti guardi allo specchio e ti dici: “Devo cambiare”. A quel punto inizia una lotta interiore perché per cambiare è necessario essere disposti a lasciar andare la vita, accettare che passi e che le persone che hai amato non ci sono più così come non esistono più le cose che amavi di te. Orientarsi è complesso. Non servirebbero 5 sensi ma 65. Serve equilibrio, io lo trovo nella pulizia».

Quand’è che si sente pulita?
«Quando posso donare amore e quando mi arriva altro amore in cambio. Quando scambio qualcosa. Quando oltrepasso i miei limiti e sento brillare gli occhi come se mi bruciassero da dentro. Se devo parlare pubblicamente in una piazza, prima di salire sul palco, inizio il consueto soliloquio con me stessa. “Perché devo affrontare questo atroce supplizio?”. È un po’ come al mare: “Perché devo saltare da così in alto se rischio di sbattere?”».

E cosa si risponde?
«Che se sbatto mi curo le ferite. Quando cadi ti rialzi, quando ti fai male ti ricuci, quando ti perdi ti ritrovi. Finché non è il tuo momento, come dicono le nonne, c’è rimedio».

Non vorrà farci credere di essere timida.
«Esistono i timidi estroversi, so che lo sa».

Miriam Leone, timida estroversa.
«Senza creatività non sarei chi sono, ma non posso sostenere che essere creativa mi abbia aiutato a capire chi fossi. Sono tante cose insieme. Un ragazzo gay, un uomo, una donna, magari novecentesca, perché certe parenti che cucivano alla finestra per risparmiare sulla luce elettrica e certe radici, in qualche modo, mi sono entrate sottopelle. “Cosa farai da grande?”, mi chiedevo da ragazza. “Che ne so?”,  mi dicevo, ma non mi rispondevo mai l’architetto o il medico. Ho sempre guardato a un mondo non definibile, lontanissimo dal luogo in cui ero nata e in cui mi sembrava che certe cose non potessero accadere. La mia famiglia con il cinema non c’entra niente, per decenni a casa Leone si è parlato in termini mitologici e ammirazione infinita di un lontano prozio che aveva avuto una mezza posa da monello ne La terra trema di Visconti e poi, così affascinato dal cinema, era emigrato a Roma per fare l’elettricista sul set».

Poi però lei attrice è diventata davvero.
«Ma il prozio non c’entra. Non l’ho mai conosciuto, a diventare attrice non mi ha aiutato nessuno. Nella finzione scenica c’è la ricerca di una verità molto più vera della realtà stessa. La costruisci e quindi la rendi imperfetta, ma spesso vai in fondo a un sentimento, studi un tema, racconti una psicologia. È come mettere insieme dei mattoncini che alla fine compongono un’identità immaginaria che sembra spaventosamente vicina alla realtà. Al vero o perlomeno al verosimile».

Cos’ha imparato in un decennio di cinema?
«La giusta distanza tra l’essere e il non essere. È un funambolismo delicato, ma essenziale perché il ruolo che interpreti non coincide con te e in fondo non ti riguarda. Dopo La dama velata, sei interminabili mesi di set per una fiction, il primo lavoro importante della mia vita in cui avevo investito molto in sentimenti e verità, mi ammalai. Oggi, anche se non mi sento mai sicura della mia capacità, della mia integrità, del luogo in cui sto andando, non accade più».

Cos’ha capito invece dei suoi 34 anni?
«Che non si smette mai di imparare».

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