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Zucchero: “Feci piangere Miles Davis, quell’insegnamento di Pavarotti. Stiamo andando tutti incontro a una sconfitta epocale”

Zucchero fece piangere Miles Davis, il cantautore racconta alcuni aneddoti legati alla sua carriera in una intervista rilasciata a ‘La Repubblica’

Zucchero: “Feci piangere Miles Davis, quell’insegnamento di Pavarotti. Stiamo andando tutti incontro a una sconfitta epocale”. Il cantautore racconta alcuni aneddoti legati alla sua carriera in una intervista rilasciata ai microfoni de ‘La Repubblica’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Al successo non sei arrivato subito.
«Quasi dieci anni di gavetta, di porte sbattute in faccia e anche dopo non è stato facile».

Hai mai pensato di non farcela?
«Più di una volta. Oltretutto, avevo una moglie che non era il massimo dell’ incoraggiamento. Due figli, i soldi che non bastavano e la precarietà di un mestiere per il quale ti sembra sempre di stare sul ciglio di un burrone».

Dal punto di vista professionale sei stato ampiamente ripagato. A cosa devi il tuo successo?
«Lo devo innanzitutto a me stesso. Poi ci sono gli incontri con le persone giuste, la stima che comincia a circondarti. La gente che ti guarda con un occhio diverso. E poi, nonostante fossi un provinciale, o forse grazie al fatto che lo ero, ho sempre guardato fuori dal nostro Paese. Volevo far parte di una famiglia musicale che capisse il mio sforzo, i miei desideri, i miei sogni».

Alludi al confronto con le grandi rockstar?
«Sono stato fortunato nell’ incontrare artisti che hanno capito e apprezzato la mia lingua musicale: Eric Clapton, Sting, Bono, Joe Cocker e ovviamente Miles Davis».

È vero o è una leggenda che sia stato Miles Davis a chiederti di suonare con lui?
«Lui sentì Dune mosse, chiese chi fossi e decise che avrebbe fatto volentieri quel pezzo con me. Lo raggiunsi a New York e in una sala di registrazione facemmo il pezzo. Superammo alcune incomprensioni e alla fine disse che gli piaceva la mia voce. Ero stordito. Disse anche che quella musica lo aveva fatto piangere. Non so se esagerava o se era entrato in un mood particolare».

Cosa ti colpì di lui?
«Era un misto di aggressività e tenerezza. Finimmo la serata in un ristorante. Era nero, vestito di nero, con le lenti nere. Si tolse gli occhiali e vidi due fessure verdi. Erano i suoi occhi. Bellissimi. E aveva acceso il mio buio».

Una canzone del tuo nuovo album,”D.O.C”, si intitola “Spirito nel buio”. Parli di feste in paradiso, di gioia nel mondo, del fiume Giordano, di sacro e di profano. Davvero è questo il mondo che stai cercando?
«È la spiritualità di cui ti parlavo prima. Si tratta di una conquista difficile. Quella canzone dice anche che mi sento come perduto nella nebbia e che vorrei un mondo in festa. Ma il mondo non è quello che sognavo da bambino. Ci sono i fallimenti privati e quelli collettivi».

A quali stai dando la precedenza?
«In questo momento mi pare evidente che stiamo andando tutti, chi più chi meno, incontro a una sconfitta epocale. Siamo ancora sospesi, con la paura di non farcela».

Prima hai raccontato del tuo primo attacco di panico. Come hai contrastato questo problema?
«Intanto vivendolo. Anche drammaticamente. Fu terribile prima di un concerto al Cremlino e un’ altra volta quando fui invitato a cantare a Wembley per un tributo a Freddie Mercury. C’ erano i Queen, David Bowie, Elton John, George Michael. Stavo malissimo. Sudori freddi. Quando arrivò il mio turno volevo solo andarmene. Dietro il palco la fuga. Davanti ottantamila persone. L’ angoscia mi terrorizzava. Ero nella fosse dei leoni. Alla fine l’ adrenalina ebbe il sopravvento e cantai alla grande. In seguito le cose si complicarono. All’ inizio di un tour per il mondo venni preso dal panico. Decisi di annullare tutti i contratti e partii per Pisa con l’ intento di ricoverarmi nell’ istituto diretto dal professor Cassano, grande specialista di patologie legate alla depressione».

Cosa accadde?
«Gli spiegai cosa avevo e che intendevo ricoverarmi nella sua clinica. Nel frattempo gli organizzatori del tour minacciavano penali mostruose da pagare. Non mi importava. Volevo solo stare lontano dalle scene e curarmi. Volevo la mia piccola tana. Ma Cassano fu irremovibile. Mi spiegò che la cosa migliore era affrontare il tour assumendo tuttavia dei farmaci che lui avrebbe dosato. Niente. Insistevo per essere ricoverato. Poi vidi una vecchia in un corridoio che urlava che voleva uscire e mi sono spaventato. Rischiavo di fare la stessa fine. E allora decisi di tornarmene a casa».

E alla fine?
«Partii per il tour grazie anche all’ intuizione di un amico che mi offrì molta grappa. Il professor Cassano ci mise il Prozac. La miscela fu per me risolutiva».

E oggi?
«Come ti ho detto va molto meglio. Ogni tanto penso a mio nonno. Anche lui, scoprii, aveva avuto attacchi di panico. Non si sapeva, allora, esattamente cosa fossero. La nonna lo faceva sedere, gli sfilava la maglia e gli asciugava il sudore. Poi gli serviva un brodo caldo e lui ricominciava a vivere. Come accade a me: Adelmo Fornaciari in arte Zucchero. Ma io, per i miei ero Delmo, e le mie radici sono ancora lì in quella terra. Mi ricordo quando diventai amico di Pavarotti: i concerti eseguiti insieme in giro per il mondo. Luciano era planetario. Aveva più popolarità di Michael Jackson, ma quando tornava a Modena giocava a carte con gli amici e tagliava i salumi. Essere provinciali e universali. Questo mi ha insegnato. Mi chiedi di oggi. Ho imparato a conoscere il mio male e a contrastarlo. Sono vigile e sereno. Un tempo mi ero fissato che il pubblico venisse ai miei concerti per giudicarmi e criticarmi. E ci stavo male. Ora so che in realtà viene perché ama le mie canzoni, la mia musica. Anche questa, giuro, è stata una conquista».

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