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Spettacolo

Luca Carboni si racconta: “Quando pubblicai il primo album non avevo mai cantato prima. Di notte in auto le mie creazioni..”

Luca Carboni si racconta in un’intervista rilasciata ai microfoni di Vanity Fair:

«Quando pubblicai il primo album non avevo mai cantato in vita mia, non avevo tecnica e non sapevo gestire il suono della voce. Così registravo le canzoni a pezzi. C’era il nastro analogico, era difficilissimo ricomporre il puzzle. Ma da allora ho sempre fatto così».

Chi le consigliò di fare così?
«Lucio Dalla mi disse di registrare una frase alla volta finché la canzone non veniva bene. Tre parole, ascoltavo, nel caso ricantavo, e poi andavo avanti. A volte arrivavo in studio senza avere nemmeno i testi, di Mare mare avevo una base ma non avevo idea di cosa parlasse il pezzo finché non ho iniziato a cantarlo».

Com’è cambiato il suo modo di stare sul palco rispetto agli inizi?
«Ero inesperto nel canto ed ero inesperto anche come frontman. Sono sempre stato molto timido, nascosto dietro al pianoforte e alla chitarra».

Aveva paura?
«Quella ce l’ho sempre».

E poi?
«E poi ho scoperto che si poteva andare un metro più in là verso il pubblico, e poi un altro passo ancora. Ho conquistato il palco un metro alla volta. Nel ’92 ho fatto un tour con Jovanotti, lui viveva lo stesso spazio in lungo e in largo, e anche in verticale, su e giù».

Di recente Jovanotti ha detto che quel tour fu un momento di assoluta perfezione. 
«Lo fu anche per me. La ragione è che siamo tutti e due Bilancia, entrambi amiamo i contrari, far convivere gli opposti. E in quel caso eravamo noi gli opposti, io statico, lui dinamico. Fu una magia, ci stimolavamo a vicenda a essere l’altro, io correvo con lui, lui stava immobile come me. Tutto istinto, senza studio o esperienza».

Come lo vive il tour, le piace stare in giro?
«Mi dà energia. Mi piace la dimensione nomade, il mio gruppo sanguigno è B, quello dei nomadi, si è formato nel periodo di Genghis Khan, sono a mio agio in movimento. Nei primi anni scoprivo l’Italia, che non conoscevo, fino all’uscita del primo disco avevo viaggiato pochissimo. La prima volta in Sicilia, la prima volta in Puglia. Poi sono diventato papà, la novità era finita, e allora ho iniziato a tornare ogni volta che potevo. Viaggiavo da solo di notte per rientrare, a volte dalla Puglia o da Napoli».

Le piace guidare?
«Mi piace guidare di notte, il viaggio in macchina è la mia dimensione della creatività, è il luogo ideale per ascoltare le cose che scrivo, provini, demo. Tutti i miei dischi nascono così. Da ragazzino facevo il giro dei viali di Bologna fino all’alba per mettere alla prova le canzoni e vedere com’erano».

Nei suoi testi, ed è così anche in Sputnik, è sempre entrato molto il tempo presente.
«La caratteristica principale del mio essere creativo è la relazione con l’ambiente, il tempo, il contesto. Reagisco solo a quello che ho intorno».

E come si trova in questo tempo presente, l’Italia del 2019?
«Mah. Io sono sempre stato male e sono sempre stato bene. Il disagio mi dà energia, per me è più difficile essere felice nelle situazioni perfette. Dal punto di vista politico ho l’esperienza per sapere che tutto passa. Poi il presente non è quello che sognavamo, chiaro».

Da padre di un ventenne è preoccupato?
«Mi preoccupa che quando avevamo vent’anni la nostra generazione buttava giù i luoghi comuni del posto fisso, oggi ho un figlio di vent’anni e possono chiamarlo a lavorare a tre euro l’ora. Ci metteva tristezza la stabilità, oggi mi inquieta la realtà che abbiamo messo al suo posto e nella quale i nostri figli stanno entrando».

Sono attrezzati secondo lei?
«Secondo me nessuno è attrezzato a niente. Ma individualmente ogni ragazzo con cui ho avuto la possibilità di parlare mi sembra avere l’istinto per farcela. Negli anni ’70 tutto era collettivo, politicizzato, stereotipato, fu una generazione che viveva di luoghi comuni, sinistra, destra, non vado lì perché quelli che la pensano come noi non vanno lì. Oggi i ragazzi sono pianeti isolati, senza vita di strada ma per fortuna senza luoghi comuni».

Lei è sempre stato oltre quei luoghi comuni. Quindi sarà contento?
«La mia società era frammentata in divise: comunista, democristiano, fascista, l’oratorio, la festa dell’Unità, era una cosa drammatica e non c’è niente da rimpiangere».

Ha seguito Sanremo? 
«L’ho visto. Io non ci sono mai stato a Sanremo, sembrava che ci dovessi andare per il mio primo album, non fu così, l’ho preso come un segno che per me non c’era bisogno di Sanremo. Però lo guardo sempre. La canzone più interessante dell’ultima edizione è sicuramente quella di Achille Lauro, ha elementi musicali e di testo molto forti».

Le piace la proposta autarchica sulle canzoni italiane da imporre in radio?
«Se ne parla dagli anni ’80. In passato mi sembrava anche una cosa sensata, ma la verità è che non c’è bisogno di imporre il gusto per legge, sarebbe controproducente per la musica italiana, per ottemperare a una legge verrebbero passati pezzi vecchi o inutili».

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