Home » The Irishman, Scorsese: “Al Pacino temeva di morire prima di finirlo. Marcel? Confermo e aggiungo…”
Cinema

The Irishman, Scorsese: “Al Pacino temeva di morire prima di finirlo. Marcel? Confermo e aggiungo…”

The Irishman, Scorsese parla ai microfoni de ‘Il Corriere della Sera’ e racconta alcuni retroscena legati alla realizzazione del film

The Irishman, Scorsese: “Al Pacino temeva di morire prima di finirlo. Marcel? Confermo e aggiungo…“. Il regista ha rilasciato una intervista ai microfoni del collega Paolo Mereghetti per le pagine de ‘Il Corriere della Sera’.

In «The Irishman» i personaggi non sfidano la morte, ci convivono: è lei la vera protagonista.
«Quando Bob (De Niro) e io abbiamo deciso di raccontare questa storia, ho pensato che avremmo potuto imparare qualcosa anche alla nostra età — abbiamo tutti e due 76 anni — e accettare l’idea della mortalità, ammesso che sia possibile farlo. Imparare a vivere con questa consapevolezza. Io glielo ho anche detto esplicitamente: lui mi guardava e annuiva. A un certo punto Al Pacino, che ha due anni più di noi, mi ha detto: “Spero di vivere abbastanza a lungo per vedere il film finito” per via del tempo lunghissimo, cinque anni, che c’è voluto per sviluppare la tecnologia digitale di ringiovanimento. Ma ce l’ha fatta, grazie a Dio».

Il film abbraccia quarant’anni di vita americana.
«The Irishman ci ha permesso di guardare indietro alla nostra vita. Sia io che Bob abbiamo potuto fare i film che abbiamo voluto, siamo diventati famosi. E adesso? Cosa altro ci aspetta? Abbiamo imparato qualcosa? Certamente siamo stati testimoni di un periodo molto stimolante. Io quegli anni li ho vissuti fino in fondo senza fidarmi delle ideologie. Avevo voglia di credere in una società ideale, in un’utopia. Lo volevo veramente anche se ho scoperto che non esiste. Ho fatto del mio meglio, credo, imparando il rispetto reciproco, come sono fatte le persone. Con molta curiosità nei confronti della vita».

Per la prima volta in un suo film ha un posto importante la politica.
«Io mi sono tenuto sempre lontano dalla Storia contemporanea, dai grandi eventi. Ci sono stati grandi autori capaci di farlo, come il vostro Francesco Rosi con Salvatore Giuliano o Il caso Mattei. Io non sono capace. A casa mia non si è mai parlato di politica, se non di Roosevelt e della Grande Depressione. Nel mio film seguo quello che ha scritto Charles Brandt a proposito della fine di Jimmy Hoffa ma non voglio spacciarla per verità. E poi: è così importante sapere chi ha ucciso John Kennedy? Chi c’era dietro gli assassini di Robert Kennedy o di Martin Luther King? Saperlo, ci aiuterebbe a sentirci meglio? Renderebbe la nostra vita più facile?».

Ma nel film si parla della famiglia Kennedy, di Castro, della Baia dei Porci, di Nixon…
«Però restano sullo sfondo. Ci spiegano dove andava l’America allora e ci ricordano che Frank Sheeran giocava su una scacchiera dove altri comandano. Ma a me non interessavano le idee di Frank sulla politica americana: io volevo raccontare solo le sue emozioni di uomo. Quello che mi interessa di una persona come lui è l’amore, il rimorso, il tradimento, la necessità del tradimento. Alla fine, la politica non c’entra: tutto si restringe al fatto che deve tradire la persona cui vuole più bene. Tutto resta focalizzato sull’individuo, sul dilemma umano, sul conflitto morale».

Una tragedia della vita quotidiana.
«Sono cresciuto in quartieri devastati dall’alcol, dove mettevano le bombe nei locali e la gente moriva per strada. Ogni giorno c’era una tragedia ma la gente si sforzava di vivere. La cosa sconvolgente è che queste tragedie facevano parte della nostra vita. Non c’è mai nulla di drammatico nelle uccisioni che vediamo fare a Frank. E non dimentichiamo che Sheeran aveva fatto la guerra: 411 giorni di battaglie in Italia, Anzio, Salerno, Montecassino. Chi sei quando torni a casa? Pensiamo ai soldati che oggi tornano dall’Afghanistan e in tantissimi si suicidano. Non sto giustificando quello che fece Frank, sto cercando di capire».

Nel film c’è una scena molto divertente, quella sulla puzza di pesce in auto. Qualcuno ha scritto che è una scena alla Tarantino.
«È una scena vera, presente nel libro. Frank, Sally e Chukie stanno andando a uccidere Hoffa e Frank non si fida dei suoi due compari: ognuno potrebbe uccidere gli altri. Ma a differenza di altri film, qui la violenza è vera, ha delle conseguenze. Non è ad effetto, non vuole essere una punteggiatura artistica. È reale, anche se fa ridere. E comunque nei miei film c’era molto umorismo ben prima di Tarantino: penso a Mean Street, un po’ a Taxi Driver, molto a Toro scatenato e molto di più a Quei bravi ragazzi».

C’è molta musica nel suo film.
«Quando ero piccolo, la musica era la principale forma di comunicazione artistica. I miei genitori appartenevano alla classe operaia, non c’era l’abitudine di leggere libri. C’era il cinema, la radio, i juke box. Da ogni finestra usciva della musica e quella più famosa veniva dalle colonne sonore: il tema di Mario Nascimbene per La contessa scalza, quello di Ruby fiore selvaggio, quello di Grisbì, che ho messo nel film perché adoro Jean Gabin e volevo che De Niro si ispirasse un po’ a lui. E poi La ballata di Mackie Messer, Al di là di Luciano Tajoli che avevo imparato a conoscere in Gli amanti devono imparare di Delmer Daves…».

Anche la fotografia ha una patina antica.
«Definirei la luce di The Irishman una luce barocca, caravaggesca. L’ho chiesta a Rodrigo Prieto, il direttore della fotografia, perché l’illuminazione di quei posti era proprio così, coi séparé e i divanetti di pelle rossa che sembravano più scuri. Avevano un fascino misterioso. New York non era molto illuminata in quegli anni, c’erano poche luci per le strade. Io sono cresciuto nell’oscurità».

Per ringiovanire i suoi attori ha dovuto girare in digitale?
«Il film è girato per il 70 per cento in digitale e per il 30 in 35mm. Per il mio film precedente, Silenzio, le proporzioni erano invertite. Ho sempre cercato di usare la pellicola quando ho potuto, ma per la sperimentazione digitale sul ringiovanimento ho dovuto utilizzare una macchina da presa speciale e naturalmente digitale».

Lei ha dichiarato che i film di super-eroi si avvicinano più ai parchi di divertimento che al cinema.
«L’ho detto e lo confermo. I parchi di divertimento sono luoghi fantastici quando si è bambini, ma poi si cresce. Non sto dicendo di non fare i film della Marvel, dico solo: lasciate un po’ di posto anche ai nostri film. Lo dico perché sono preoccupato del fatto che tutto ruoti sempre intorno al concetto di super uomo, di Übermensch: se ci sono solo quei film, i ragazzi penseranno solo in quel modo, dimenticando che un essere umano a volte deve prendere delle decisioni che non vorrebbe prendere, che esistono le contraddizioni, che il mondo non si divide solo in buoni o cattivi. Voglio che i giovani sappiano che quei film non sono vero cinema, sono un’altra cosa. Ma se non possono vedere gli altri film, come possono capirlo?».

La sua scelta di far produrre «The Irishman» da Netflix ha suscitato qualche polemica.
«Negli ultimi trent’anni ho sempre lavorato con produttori indipendenti ma non ho trovato nessuno per questo film (il costo si è aggirato intorno ai 160 milioni di dollari, circa 144 milioni di euro, ndr). Solo Netflix ha accettato di finanziare interamente il progetto lasciandomi totale libertà creativa. In cambio ha voluto la possibilità di programmarlo in streaming in contemporanea con la distribuzione nelle sale. Mi è sembrato uno scambio equo. Soprattutto se penso che alcuni miei film, come Re per una notte, sono stati al cinema due settimane e poi sono spariti. Certo, l’ideale è vedere i film al cinema, ma prima bisogna farli per poterli vedere».

Cosa è orgoglioso di aver lasciato con la sua opera.
«Le racconto cosa mi è capitato mentre stavo facendo dei sopralluoghi nel Midwest, in Oklahoma. Stavo guidando da ore, intorno a me c’erano solo distese di campi e una mucca ogni tanto. Poi, in mezzo a quel nulla mi è apparso un ranch, circondato da erba a perdita d’occhio. Io ero stanco morto, faceva un gran caldo, era agosto: ho deciso di fermarmi. Mi hanno accolto una madre col figlio, gentilissimi. Ricordo che avevano anche un cane. Ci siamo stretti la mano e il ragazzo, molto gentile, mi ha chiesto di fare una foto. Poi mi guarda e mi chiede se può farmi una domanda. Io immagino già che sia la solita: “Quale dei suoi film preferisce?”. E invece lui mi chiede: “Ha contribuito lei a distribuire La clessidra di Wojciech Has?”. Sono rimasto senza parole. Un ragazzo che viveva in mezzo al nulla aveva visto quel film che io avevo fatto restaurare e distribuire e lo aveva trovato meraviglioso. “Mio fratello e io poi abbiamo recuperato tutti gli altri film di Has e anche altri titoli polacchi” ha aggiunto. Una persona in mezzo al nulla… Ecco, forse una cosa buona l’ho fatta».

Seguici anche su Facebook. Clicca qui per diventare fan della nostra pagina ufficiale

VIDEO – Concorrente fa infuriare De Filippi: “Ragazza vergine con certificato? Cogl***e!”

Oroscopo Paolo Fox, classifica fine settimana segno per segno

Loading...
Social Media Auto Publish Powered By : XYZScripts.com