Il collegio, Alessandro Carnevale si racconta in una lunga intervista rilasciata ai microfoni della rivista Vanity Fair
Il collegio, Alessandro Carnevale: “A scuola ero un ribelle. La fama mi ha dato forti pressioni. La gente mi scrive…”. Il professore di arte del docu-reality di Raidue si racconta in una lunga intervista rilasciata ai microfoni del collega Mario Manca per la rivista Vanity Fair. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
«Nasco come un individuo piuttosto riservato e tutta l’attenzione che arriva in funzione del Collegio non dico che mi dia fastidio, ma mi allontana senz’altro dalla condivisione della mia vita personale».
[…] Migliaia di utenti cercano di condividere con lui attraverso i social inviandogli disegni, dipinti, racconti, tutto ciò che fa parte del loro io.
«Ricevo centinaia di messaggi ogni giorno e, per carattere e per indole, cerco di rispondere a tutti perché si tratta di persone che mi chiedono un consiglio, una battuta che possa migliorare la loro giornata. Il problema è che mi sento in colpa quando non riesco a prestare attenzione a tutti: rispondere diventa un lavoro, ci devi dedicare almeno un paio d’ore al giorno ma, alla lunga, diventa stressante, una cosa faticosa da gestire. A un certo punto ti chiedi: per cosa lo sto facendo? Tutta questa visibilità la odiavo, non sopportavo di avere tutte queste persone interessate».
A ottobre, dopo 8 mesi di silenzio, è tornato su Instagram parlando di un «burnout»: scriveva che, dopo il successo del Collegio, era nel pieno di una crisi sia creativa che personale. Come ne è uscito?
«Sono cose che ciclicamente succedono nella vita di un creativo, il momento in cui si perde l’entusiasmo. Lo superi isolandoti e prendendoti del tempo, facendo errori, finché, sbaglio dopo sbaglio, non riesci a correggere la rotta e a trovare una nuova direzione. Il problema è che quando mi sono trovato migliaia di persone addosso ho sentito delle forti pressioni: così ho abbandonato le piattaforme social mettendo a fuoco un modo per usarle in maniera intelligente».
Il collegio Alessandro Carnevale
Probabilmente le persone la cercano perché gli studenti del Collegio con lei riescono ad aprirsi davvero. Da dove deriva tutta questa fiducia, secondo lei?
«Sicuramente ha a che fare con il discorso artistico: l’arte viene sempre trascurata, trattata come una materia di serie B, ma è una palestra per sviluppare l’empatia, un momento in cui si raccontano i desideri, i sogni, le ambizioni. Qualcosa che la scuola vede come una distrazione che non deve influenzare l’apprendimento, e allora mi chiedo: ma cos’è la scuola se non un luogo in cui incoraggiare gli studenti a guardare il mondo in modo diverso? Mi commuove che da casa le persone riescano a vedere questo anche in pochi secondi di televisione».
Mario Tricca, per esempio, ha condiviso con lei la sua «paura per il futuro»: lei ci ha mai pensato da adolescente?
«Assolutamente sì, basta guardare il contesto in cui viviamo, lo scandalo, la crisi, l’incertezza che regola la percezione che abbiamo del mondo, il non sapere quello che succederà, la crisi economica, i cambiamenti climatici. Una sensazione che per persone sensibili come Mario diventa un problema: il futuro è un’incognita negativa, e io la capisco questa paura».
Il collegio, Alessandro Carnevale
È vero che era uno studente ribelle?
«Ero ribelle per indole: quando una materia non mi interessava, rifiutavo lo studio. Sono cose che succedono a 15 anni, quando non hai la maturità per capire che tutto è importante».
C’è uno studente del Collegio in cui rivede sé stesso?
«Mario Tricca è una persona con cui è facile creare un legame empatico, ma mi colpisce molto anche Alex Djordjevic per via delle sue debolezze, il suo modo aggressivo di porsi cercando di nascondere una fragilità enorme. So cosa c’è dietro quello che mostra davanti a tutti».
Molti studenti sembrano certi di quello che faranno da grandi: lei ha sempre sognato di diventare artista?
«Prima volevo fare il musicista, poi è nata l’idea di diventare scrittore e ho pubblicato un romanzo. Dopo sono tornato all’arte figurativa: avevo sempre il desiderio di dire qualcosa quando sentivo che le parole non arrivavano».
Ha anche recitato: in Rete gira il trailer di un film, Primes, che la vede come un agente segreto.
«Era un progetto nato insieme a dei ragazzi molto giovani e basato sull’ipotesi di Riemann che è il fondamento della crittografia del mondo digitale, della sicurezza bancaria. Girammo il trailer per proporlo alle case di produzione ma, visto che non avevamo soldi per pagare degli attori professionisti, avevamo deciso di girarlo con persone che potessero farlo gratuitamente. Io ero uno stuntman, ma fui doppiato da Guido Roberto: la cosa, però, non andò in porto e finì lì».
Oggi reciterebbe ancora?
«Non credo che sarei in grado. Già mi chiedono sempre se Il Collegio sia recitato, ma non lo è assolutamente: io lì sono me stesso, non seguo nessun copione, altrimenti non riuscirei a trasmettere determinate emozioni».
Ha anche studiato batteria per diventare professionista: quante vite ha vissuto in questi 29 anni?
«Troppe, ma tutte legate attraverso l’arte. Dopo il liceo artistico ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Torino ma, nel frattempo, studiavo batteria per diventare professionista a Milano. Sull’onda del mio percorso musicale, poi, sono tornato a Savona e ho fatto il docente di batteria e percussioni alla Scuola Nicolini: non mi pento di nulla. Anche un’esperienza fallimentare come quella del trailer mi ha dato un bagaglio emotivo che mi ha permesso di affrontare la pressione del Collegio in modo più sereno. Come Mario Tricca soffro di un’ansia da prestazione che non supererò mai, ma che ho imparato a gestire. Quella fastidiosa sensazione allo stomaco è sempre con me, ma ormai ci convivo».
Immagino l’ansia quando nel 2015 è stato inserito tra i 500 artisti da tenere d’occhio per l’Art People Gallery di San Francisco: non si è mai montato la testa?
«Mai. Ho sempre cercato di rimanere quello che sono, non cedere all’ombra emotiva del riconoscimento che ti fa smettere di diventare artista e ti trasforma in un un bravo artigiano che cerca di cavalcare l’onda per accumulare denaro, ricchezza, fama, potere. Ho sempre usato le mie opere perché rispecchiassero una parte di me: sono la persona che sono, un provinciale cresciuto in un paesino di tremila anime e questa è la mia vita, c’è poco da fare. Posso anche esporre a New York, cosa che ho fatto, ma resto sempre quel ragazzo lì».
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