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The New Pope, Sorrentino: “Il mondo ha bisogno di figure pubbliche autorevoli. Perché credo nei miracoli”

The New Pope, Sorrentino racconta la nuova stagione della Serie Sky, amin una intervista rilasciata ai microfoni di Huffington post Italia

The New Pope, Sorrentino: “Il mondo ha bisogno di figure pubbliche autorevoli. Perché credo nei miracoli”. Il regista parla della seconda stagione della serie televisiva che andrà in onda dal 10 gennaio su Sky Atlantic e Now Tv.

Ci sono due Papi (John Malkovich e Jude Law), due astuti cardinali che tramano nel Conclave (in entrambi i casi interpretati da Silvio Orlando), due lutti che non finiscono mai di essere elaborati.
“Il doppio è un tema che mi interessa, fin dal mio primo film, L’uomo in più. Non le so dire perché. Credo che quando si scrive, innanzitutto, si è ignoti a se stessi”.

L’Isis e il terrorismo nella serie.
“La seconda stagione inizia con un Papa che apre le porte della Chiesa, e perciò tutte le questioni d’attualità che nella prima stagione erano rimaste fuori, stavolta entrano dentro”[…]

L’intimidazione dell’estremismo islamico risuona nel racconto come un presagio di violenza imminente e ricorda gli scritti in cui Carl Gustav Jung sentiva arrivare in lontananza la Seconda Guerra Mondiale – come se Sorrentino avvertisse una sensazione del genere, o, almeno, questo è quello che ha fatto provare a noi.
“Viviamo in una società in cui è molto difficile prevedere cosa accadrà domani e questo fa molta paura […] Credo che Jung fosse molto più intelligente di tutti noi messi insieme. Eppure, ho l’impressione che fosse più semplice per lui avere un presentimento, vedere al di là del presente, perché la società in cui viveva era molto più delineata, più netta. Adesso, tutto è meno chiaro. E questo spaventa. E induce, in alcuni casi, a radicalizzare le proprie posizioni, fino al fanatismo. Detto questo, io non sono uno studioso, non sono un analista: sono solo un osservatore con un po’ di fantasia. E ho questa impressione: che il pericolo sia dietro l’angolo””.

The New Pope, Sorrentino racconta la nuova stagione della serie

Per evitarlo, servono leader fragili come il suo nuovo Papa?
“Credo che nel mondo ci sia bisogno di figure pubbliche autorevoli, che sappiano guidarci nel nostro diritto a essere fragili, che ci riconoscano la facoltà di essere vulnerabili, di sentirci in difficoltà, di fallire, di non sentirci all’altezza”.

Un leader politico può permettersi di essere fragile?
“Questo non lo so. Il Papa, certamente, sì. Essendo, oltre che un capo politico, un’autorità spirituale. A me, commuove chi rivendica per sé e per gli altri il diritto a non farcela. Chi non si vergogna di non riuscire a soddisfare le aspettative altrui. Chi riconosce che tutti abbiamo il diritto di essere deboli. È quello che fa il nuovo Papa della serie. E penso che sia una cosa da veri cattolici: considerare la propria fragilità una forza, anziché – come spesso avviene nella vita – una fonte di disagio, timidezza, solitudine, dolore, che, all’estremo, spinge fino al suicidio”.

La fragilità è ciò che la attrae nelle persone?
“In realtà, mi attrae la contraddizione. È come nelle relazioni sentimentali: è quando scorgi qualcosa che ti spiazza che cominci a diventare sensibile all’altro. Mi è successo anche con John Malkovich. Quando l’ho incontrato, siamo stati a parlare fino alle tre-quattro del mattino. L’ho trovato leggero, ma capace di dare importanza alle cose. Ironico, ma anche molto serio. Ho pensato che il personaggio che avevo scritto era parecchio più debole di quanto lui non fosse nella realtà. Per questo, l’ho riscritto daccapo”.

Entrambi i suoi Papi si nascondono dal mondo. Sono loro, o è lei che diffida della testimonianza? […]
“Credo che entrambi i Papi della serie testimonino, in realtà, la propria fede. Ma tutti e due prendono in considerazione l’ipotesi di fare un passo indietro, per il bene della Chiesa e dei fedeli. In questo senso, sono ammirevoli. Sanno rinunciare al personalismo. Al bisogno di esserci”.

Dovrebbero farlo anche i capi politici?
“Guidando la Chiesa, entrambi svolgono un ruolo anche politico. E, certo, dimostrano di saper fare quello che i politici non sanno più fare: ovvero, rendersi conto che noi siamo più importanti di loro. I politici lo dimenticano sistematicamente. E si ostinano a rimanere sulla scena, anche quando il mondo gli dice chiaramente: “Non c’è più bisogno, fatti da parte””.

Perché non ha messo da parte il sesso, raccontando la Chiesa?
“Perché il sesso è dappertutto, e pensare che nel Vaticano non ci sia, sarebbe ipocrita. Certo, non mi interessa la provocazione. Non voglio essere né irriverente, né trasgressivo. È un gioco che si è fatto molto spesso. E che è troppo semplice. Prendi un’istituzione millenaria, con una morale rigida, e ti muovi spregiudicatamente. Non è solo vecchio: è, soprattutto, infantile”.

Paolo Sorrentino su The New Pope ad Huffington post Italia

È infantile anche credere ai miracoli?
“Con moderazione, anche io ci credo abbastanza: fanno parte della dimensione poetica della religione”.

Cosa ha di poetico la religione?
“La religione e la poesia hanno in comune lo stesso territorio: il mistero. Entrambe si pongono delle domande su una materia in cui è difficile avere delle risposte, e questo alimenta lo spirito poetico. Anche la Bibbia, se letta da un punto di vista laico, può essere considerata un testo letterario, dentro il quale si trovano dei passaggi altamente poetici”.

La serie tv è meno poetica del cinema?
“La serie televisiva è molto più vicina al romanzo di quanto non lo sia un film. Lo è nella fruizione, perché si guarda a pezzi, esattamente come si legge un romanzo. Lo è nella lunghezza, che consente una complessità narrativa che può corrispondere alla complessità di un racconto letterario. In un film, invece, sei ingabbiato in una griglia che ti consente di fare delle cose, ma ti obbliga ad escluderne altre”.

È più a suo agio nella serie che nel film?
“Quando scrivo un film, devo sforzarmi di tagliare. Quando scrivo una serie devo sforzarmi di aggiungere. La mia misura ideale sarebbe un film di tre ore o una serie di quattro episodi. Peccato che i film durino in media due ore, e le serie tv dieci”

Più volte, ha lamentato la “medietà” delle immagini tv, che sono forti, ma non potenti. Anche le sue rischiano l’impotenza?
“Sullo schermo televisivo, l’immagine perde l’energia che ha sul grande schermo, in termini di profondità e di esuberanza. Però, credo che l’immagine, anche su uno schermo piccolo, conservi la capacità di suscitare emozioni, di commuovere, oppure di far ridere. È una diminuzione, certo. Ma è una diminuzione accettabile”.

Non ha paura della semplificazione?
“Non è questo il caso. Ma, certo, cerco di fuggire più lontano possibile dalla semplificazione. Che è – soprattutto quando si tratta della semplificazione del desiderio, ridotto a una pulsione elementare, così come della semplificazione del linguaggio – la cosa più prossima che ci sia alla morte”.

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