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Spettacolo

Edoardo Bennato si racconta: “Io pazzo squilibrato. Droghe? Luogo comune. Vi dico Napoli cos’è…”

Edoardo Bennato si racconta in una intervista rilasciata a ‘Il Fatto quotidiano’

Edoardo Bennato si racconta: “Io pazzo squilibrato. Droghe? Luogo comune. Vi dico Napoli cos’è…”. Il cantautore napoletano ripercorre retroscena e tappe della sua carriera in una intervista rilasciata ai microfoni de ‘Il Fatto quotidiano’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

“Noi giochiamo con le parole, e dobbiamo sollecitare la poesia, non siamo ai trattati di sociologia; (ci pensa) la verità è che siamo anche avvantaggiati: partire a dodici anni per il Sudamerica è stata una grande fortuna”.

Nata, come?
“Suonavamo nei circoli cittadini, e lì ci vide un celebre armatore che ci regalò un viaggio in America: a 12 anni mi si è spalancata la realtà, aperti gli orizzonti; mi ritrovai pure ospite alla televisione venezuelana; vidi il mondo con i miei occhi, un mondo non filtrato dai libri, dai giornali o dalla televisione”.

E
“È cambiata ogni prospettiva; grazie alla musica sono stato in Cile nel 1971, 1972 e 1973, ho rappresentato l’ Italia al Festival di Vina del Mar, ho conosciuto Salvador Allende, una persona degna di assoluto rispetto, e lì ho visto la situazione politica peggiorare”.

Com’ era Allende?
“Uno serio, attento, preparato, dotato di umanità e schiacciato nelle beghe politiche internazionali di allora. Mi colpì soprattutto la sua umiltà”.

Allende ha segnato generazioni.
“Come pure Fidel Castro, conosciuto grazie a un viaggio a Cuba con Gianni Minà: ho suonato per lui, poi sono tornato un’ altra decina di volte”.

Ha viaggiato molto.
“È fondamentale, mi fa sentire e mi rende libero di vedere e capire, perché da sempre rifuggo le lotte tra Guelfi e Ghibellini, voglio restare al di sopra delle parti e ironizzare su tutto, compreso me stesso: Cantautore è un brano dedicato a me, al mio ruolo presunto, quello che gli altri mi hanno affibbiato”.

Qual è il suo?
“Di provocare, di creare poesie e buone vibrazioni; anche in questo momento surreale”.

Prima lezione imparata nel viaggio a 12 anni.
“Siamo partiti da Napoli in nave, poi tappa a Genova, Nizza, Barcellona, Stretto di Gibilterra, Canarie e infine l’ America; al ritorno la stiva era piena di emigranti ammassati, persone di Guadalupa o Martinica che sbarcavano a Nizza per fermarsi in Francia o raggiungere l’ Inghilterra; l’ immagine di quella stiva mi torna utile anche oggi”.

Jovanotti, Vasco, Britti, Finardi, Pelù e altri la considerano un maestro.
“Sono contento, ma preferisco sempre il ruolo di alunno”.

Chi è stato il suo maestro?
“Woody Guthrie, uno che da giovane lavorava e cantava canzoni di protesta nei campi di cotone del sud degli Stati Uniti; però rifuggo dalla retorica, dal buonismo e dai luoghi comuni e nell’ ultimo album, Pronti a salpare, parlo della necessità di noi privilegiati di capire che il benessere futuro non potrà prescindere dalla soluzione dei problemi del Terzo mondo”.

Qui l’ accuseranno di buonismo.
“No, ribalto il discorso: è utilitarismo. E non mi faccio imbrigliare da certi stereotipi”.

Chi e quante volte hanno provato a imbrigliarla?
“Da subito, già dalla prima ora sono stato costretto a mostrarmi un pazzaglione: dopo aver pubblicato Non farti cadere le braccia, il direttore della Ricordi mi disse: “Hai una voce sgraziata e sgradevole, per questo i responsabili della Rai hanno deciso di non trasmettere i tuoi brani, quindi abbi pazienza e togliti dai piedi. Continua con l’ università””.

E lei?
“Giocai l’ ultima carta: in Inghilterra mi ero costruito un tamburello a pedale, e un marchingegno per suonare l’ armonica insieme alla chitarra in stile Bob Dylan; così scrissi delle canzoni punk, Salviamo il salvabile, Ma che bella città o Uno buono e mi misi a cantare in mezzo alla strada, davanti alla Rai: arrivarono i giornalisti e mi mandarono subito al festival di Civitanova Marche; (ride) Uno buono era uno sfottò dedicato all’ allora presidente Leone, poi c’ era un altro pezzo per il Papa (pausa)”.

A cosa pensa?
“Che allora la censura era meno forte di oggi; oggi non potrei affrontare brani del genere”.

Lei a un talent?
“Mi avrebbero cacciato subito; comunque hanno sempre cercato di piegare il rock ai desideri dei potenti, ma il rock è libero anche rispetto alla musica leggera”.

Quanto le è costata questa correttezza?
“Chi vuol criticare lo fa a prescindere; nel 1973 ho partecipato ad alcune manifestazioni di Lotta Continua, o di Avanguardia, eppure mi arrivavano comunque le accuse da sinistra”.

In quegli anni le proteste toccavano il palco.
“Nel 1978 esistevano gli autoriduttori: queste persone si presentavano ai concerti, e se non gli permettevi di entrare gratis, spaccavano tutto; in quel periodo dovevamo difenderci e fortunatamente ero coperto dagli amici del cortile”.

Cioè?
“Avevo annusato l’ aria e non mi circondavo da addetti ai lavori, da manager o discografici; avevo gli amici del cortile di Napoli, quasi tutti figli di operai e impiegati dell’ Italsider di Bagnoli: un cortile cosmopolita, con famiglie di Piombino, delle Marche, del Veneto, e in quel contesto non accumulavamo frustrazioni tra Nord e Sud, ma vivevamo in una situazione smaliziata, senza atteggiamenti campanilistici”.

Insomma
“Andavo in giro con loro: il ragazzo del piano di sotto, Aldo Foglia, da manager, mio fratello Eugenio come consigliere, l’ altro fratello Giorgio era il tecnico del suono, Franco De Lucia della scala G il road manager”.

Team su misura.
“Imponevamo il costo dei biglietti a 1.000 lire quando c’ era chi ne pretendeva 10.000; tutto questo piaceva molto a Fabrizio De André: l’ ho sempre amato e stimato, anche lui non andava d’ accordo con il mondo della musica e in Sardegna siamo stati parecchi giorni insieme”.

L’ immagine che ha dentro di De André
“Fabrizio lo ricordo seduto con nella mano sinistra un bicchiere di whisky e nella destra la sigaretta; poi ogni tanto posava il whisky e si accendeva un’ altra sigaretta. E andava avanti così; era fortissimo, e si divertiva a stare con la nostra banda”.

Giocavate a pallone?
“(Scoppia a ridere) In questi giorni mi sto esercitando sul balcone con un pallone un po’ sgonfio: così tengo allenate le gambe, sono pur sempre un frontman”.

19 luglio 1980: lei ha riempito San Siro.
“In quell’ anno abbiamo suonato in 15 stadi, un giorno sì e uno no Ha aperto un fronte. In effetti il primo concerto è del 1978 al San Paolo di Napoli, un live arrivato dopo uno stop di parecchi anni, a causa degli incidenti del 1971 al Vigorelli di Milano”.

Comunque lei ha rilanciato i live
“Ed ero preoccupato solo dei problemi tecnici, non mi convinceva la potenza del suono, tanto da dover minacciare i miei amici del cortile: o migliorate, o niente San Siro; alla fine chiamarono David Zard (celeberrimo organizzatore) che ci prestò l’ attrezzatura adatta”.

Pappalardo la ricorda alla fine dei Sessanta negli studi della “Numero Uno” di Battisti e Mogol.
“Lucio spesso mi riportava a casa con il suo Duetto (spider Alfa Romeo) color rosso, e quando sconsolato gli manifestavo le mie preoccupazioni, spesso mi ripeteva: “Aoh, nun te preoccupa’, arriverà il tuo momento”. E a differenza della vulgata comune, era simpatico, con lui si stava bene”.

Cos’ è per lei Napoli?
“Un accumulatore costante di energia e creatività; mi sento cittadino del mondo, ma soprattutto napoletano”.

È amico di Maradona.
“Sempre conosciuto grazie a Gianni (Minà) che è un giornalista integro moralmente, affidabile. E Diego è animalesco, istintivo, capisce subito se il suo interlocutore è serio, e non si fida quasi di nessuno; poi è un uomo vulnerabile ma ha sempre mantenuto un sentimento forte nei confronti dei più deboli, dei diseredati: una volta al ristorante, prima di andare via, pretese di salutare i lavoratori della cucina, e a tutti loro consegnò delle banconote in mano. Una cifra assurda”.

Lei e Diego parlavate la stessa lingua
“Sì, aveva solo il problema della dipendenza dalla droga, che per fortuna non mi ha mai toccato”.

Mai?
“Non fumo neanche le sigarette e non per moralismo”.

Neanche uno spinello?
“Purtroppo no, e offro pubblica ammenda: a 15 anni ho provato una sigaretta, non mi piaceva e un tizio mi spiegò: “Non ti preoccupare, ti ci abitui”; pensai: “Sto in un mondo di scemi, mi devo abituare a qualcosa di sgradevole?””.

Negli anni Settanta le droghe erano comuni.
“Io giocavo a pallone; sono i luoghi comuni a pretendere e prescrivere l’ uso di additivi per chi suona rock”.

I suoi additivi?
“Sono il calcio, lo sport e la femminilità. Sulla femminilità sono vulnerabile”.

[…] Chi è lei?
“Un pazzo squilibrato”.

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