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Rocío Molina: “Io uccido il flamenco? Puristi guardano solo un aspetto. Tento di infrangere una barriera”

Rocío Molina: “Io uccido il flamenco? Puristi guardano solo un aspetto. Tento di infrangere una barriera”. Rocío Molina e il flamenco, l’iconica ballerina e coreografa spagnola risponde alle polemiche e racconta la sua visione in una intervista a ‘Io Donna’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

L’hanno addirittura accusata di “uccidere” il flamenco…
“I “puristi” guardano esclusivamente alle radici profonde, benché sia relativamente giovane (la prima attestazione su un documento è del 1774, ndr). Occorre invece capire che l’albero non cresce solo sottoterra, cresce pure verso l’alto e quindi va alimentato… Io, in realtà, mi ritengo vicina alla tradizione: per me “tradizione”, “essenza”, significa genialità, freschezza, purezza, incoscienza. Verità”.

Verità?
“Saper ascoltare tutto quello che vibra dentro di me, nel mio corpo, e avere la capacità di renderlo attraverso la danza, senza giudicare se sia bello-non bello, di buona qualità-di cattiva qualità. Non esiste errore quando quello che stai facendo è totalmente sincero, dettato da qualcosa che ti trascende. Verità è dare spazio al mistero di quel che ti sta accadendo. Verità è il Duende”.

Già, il Duende. Federico García Lorca fu il primo ad associare il termine al flamenco, eppure resta difficile da spiegare…
“Credo che abbia a che vedere con la mistica: avere fede e credere in qualcosa che non sappiamo definire, che sfugge, sta al di sopra delle parole, della poesia, della danza. La forza che ti connette con te stesso contiene qualcosa di sublime e di divino, e ti può al tempo stesso connettere con un altro spazio: lo spazio degli dei”. 

[…] La sua modernità passa anche dallo stile: l’uomo balla in forma più “verticale”, braccia in alto o appoggiate alla vita. La donna più sinuosa, usa il bacino e muove le mani con grazia…
“…e invece i cosiddetti “maschile” e “femminile” in me si mischiano e si compensano costantemente: l’arte non ha genere. Una barriera che tento di infrangere, come altre che mi hanno preceduta. Uso potenza, precisione, rapidità, “durezza”, e, subito dopo, passo all’estremo opposto: sensualità, fragilità, delicatezza”. 

Rocío Molina: “Flamenco? Vi racconto la mia versione”

Come è nata la sua esigenza di innovazione?
“Era, in parte, già scritta in me. Non rispondo allo stereotipo fisico della bailaora: non ho capelli neri né pelle scura né lineamenti forti (asiatici, semmai), né imponenza (sono bassina). Dovendo partire da queste differenze, ho sviluppato un discorso originale rispetto a quello che il flamenco intende come perfezione… Del resto, quello che più mi stimola dell’arte – e, in generale, della vita – è l’imperfezione. Il trovare la bellezza in posti dove all’apparenza non si intravede”.

Quando ha scoperto il ballo come forma d’espressione?
“Presto, verso i tre anni: ho visto all’asilo un gruppo di bambine ballare sul palco e, quando sono scese, sono andata io, imitando i loro movimenti. Sono sempre stata silenziosa e timida: la danza ha rappresentato il posto in cui rifugiarmi. A Malaga, dove vivevo, non c’erano scuole: da piccina mi “immaginavo” il flamenco, non avevo riferimenti canonici, e questo mi ha concesso la libertà di inventarmi”.

Ha creato una coreografia a sette anni. 
“Forse addirittura prima. Di sicuro, a sette ho chiesto a mio padre di costruirmi un piccolo palco di legno simile a quello di Carmen Amaya (leggendaria ballerina degli anni Trenta, introdusse l’energico battere dei tacchi, prima appannaggio maschile, ndr). Ballavo vestita da uomo come lei, con un bastone”.  

[…] La maternità l’ha cambiata? 
“Moltissimo: ha cambiato il mio modo di ballare e di rapportarmi al ballo. Mi rendo conto che non uso più la mia arte per distruggermi, non me lo posso permettere: devo prendermi cura di una bambina di tre anni. Oggi ho più coscienza del disequilibrio, e cerco un equilibrio… squilibrato”. 

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