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Spettacolo

Ligabue si racconta: “Volevo ritirarmi. Stavo per morire due volte. Fine del mondo? Berlusconi che vince nel 1994”

Ligabue si racconta: “Volevo ritirarmi. Stavo per morire due volte. Fine del mondo? Berlusconi che vince nel 1994”. Luciano Ligabue si racconta, il cantautore e scrittore emiliano, 62 anni, ripercorre le tappe più significative della sua vita privata e professionale nella sua autobiografia. Ne parla in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’ della quale vi proponiamo alcuni passaggi.

Lei scrive di essere nato bluastro, e che in America l’avrebbero definito born blue: nato triste. In effetti nel libro c’è una vena di tristezza, di malinconia.
«C’è nella mia vita. E nelle mie canzoni. Mi porto dentro da sempre un senso di colpa, un pensiero di troppo. Sarà il retaggio cattocomunista. Per questo ho scritto Una vita da mediano. Un delle tante canzoni fraintese».

[…] A un anno e mezzo lei rischiò di morire di peritonite.
«Se ne accorse un medico, che era per caso nella farmacia dove mia mamma mi aveva portato. Ma l’unico ricordo è la cicatrice. Mi ricordo invece quando a cinque anni rischiai di morire per un’operazione sbagliata alle tonsille».

Se ne accorse sua madre.
«La Rina aveva preteso di passare la notte con me in ospedale. Mi scossero, e vomitai tutto il sangue che stavo ingurgitando. Emorragia. Mancava il plasma del mio gruppo, me lo donò una suora. Forse il senso di colpa viene anche da lì, dal sangue della suora…».

Il primo ricordo in assoluto qual è?
«Un divano a scacchi, arlecchinesco. L’unica nota di colore in una casa in bianco e nero. Bianco era il lenzuolo che separava il mio letto da quello dei genitori, nella stanza dove dormivamo tutti insieme».

Ligabue si racconta: “Stavo per morire due volte”

Suo nonno Marcello è una figura importante della Resistenza reggiana.
«Sì, ma io lo scoprii per caso, dal mio insegnante delle medie, quando lui era già morto, di 25 aprile. Non ne parlava mai, e mai ho respirato rancore o spirito di vendetta verso i fascisti. Prima della guerra il nonno tentava di mettere su un banchetto da merciaio, ma ogni volta le camicie nere lo costringevano a chiudere, con i manganelli e l’olio di ricino; lui però rifiutò sempre la tessera del partito. andò la Resistenza vennero a bussargli a casa, per dirgli che avevano ucciso suo figlio, mio zio Bruno, partigiano».

[…] Correggio, prima che per lei, era nota per la saponificatrice.
«Leonarda Cianciulli: il primo serial killer italiano. Conosceva bene mia nonna Ermelina, aveva invitato pure lei a casa per un caffè… Ma la nonna si considerava, e forse era, invulnerabile grazie al suo talismano, la pelle di biscia. C’è anche una vena esoterica nella mia storia: il numero 7 che ricorre, la doppia elle del nome che ho voluto dare anche ai miei figli: Lorenzo Lenny, Linda, Leon».

[…] Lei da che parte stava?
«I miei genitori erano comunisti, ma io andavo in chiesa. Mi confessavo».

Crede ancora?
«Sì. Non può non esistere una linea di giustizia che regola il mondo».

E in politica da che parte sta?
«Sono cresciuto al tempo in cui comunista non era ancora una parolaccia: mi commossi quando sentii Gaber cantare Qualcuno era comunista, ne ho fatto anche una mia versione. Oggi voto Pd, ma a fatica. Fatico a seguire Letta in questa convinzione che per fermare la guerra in Ucraina si debbano mandare altre armi».

Ligabue si racconta: “Volevo ritirarmi poi ci ho ripensato”

Armi per resistere all’invasore. E per costringere Putin a un compromesso.
«Si figuri se non sento l’idea di resistenza. Ma se poi il compromesso non arriva? Altre armi serviranno solo a fare altri morti».

[…] Per lei il successo non arrivò subito.
«Ho fatto il primo concerto a 27 anni: l’età in cui i grandi del rock muoiono».

Come mai?
«Accompagnato dal mio amico Claudio Maioli, facevamo collezione di rifiuti. “C’è ancora molto lavoro da fare”, “magari possiamo sentirci più avanti”, o anche, più direttamente: “Le tue canzoni fanno schifo”. “C’è troppo Guccini” disse un produttore; e stava parlando di Balliamo sul mondo …”».

Decisivo fu il concerto di Battiato.
«Ero sotto il palco con la mia ragazza di allora, che nel libro chiamo Morena. Ero stato a stecchetto per un anno: gli ormoni erano rifrullanti. Arrivano due donne splendide, ne avverto la carica erotica, che però è tutta concentrata su Battiato. “Quant’ è bbono!” grida una. E l’altra: “Me lo farei subito!”. Battiato: non proprio un sex symbol. Magari faccio il cantante, ho pensato».

Da lì a qualche anno i reggiseni li tiravano a lei.
«Sono sempre stato timido. Ma sul palco diventavo sicuro di me, sfrontato, sfacciato. Una medicina che fa effetto per due ore e mezza, che fa star bene me e gli altri. All’inizio cercavo nel pubblico i miei amici e li vedevo abbassare gli occhi: non mi riconoscevano».

Ligabue si racconta: “Voto Pd ma a fatica”

[…] nel libro lei racconta due storie di droga.
«Un mio amico è uscito dall’eroina. Un altro dalla cocaina, ma è caduto in depressione e si è gettato dal terrazzo. È un’esperienza che ho sempre evitato».

Così come?
«Dopo il primo successo, nel 1991, mi invita Maurizio Costanzo. Siccome ho portato la chitarra, mi chiede la canzone recensita con entusiasmo da Paolo Zaccagnini sul Messaggero: Figlio di un cane . Applauso fiacco. Costanzo commenta: di questo Ligabue sentiremo parlare a lungo. Applauso più convinto. Poi Costanzo chiede un giudizio a Carlo Croccolo, l’attore, pure lui disgustato: “Preferisco le canzoni in cui non si parla di preservativi rotti”. Al che sale sul palco Leopoldo Mastelloni, che solidarizza, mi abbraccia, e mi chiede di cantare con lui “‘nnu brano rock”. Facciamo Dylan? “No, uno famoso”. Così cantiamo Oje vita, oje vita mia…».

A scoprirla fu Pierangelo Bertoli.
«Quando gli feci sentire la cassetta con Sogni di rock’ n’roll la estrasse e la gettò via. Ma quando subito dopo gliela suonai, a testa bassa, cambiò idea. E la volle nel suo disco».

[…] Lei che lavoro faceva?
«Impiegato all’Arci spettacolo. Un giorno arriva un cantautore che parla un italiano ricercato, con in mano una bottiglia di grappa, a chiedermi di fargli da manager: era Vinicio Capossela. Non lo convinsi. Se ne andò, portando via la bottiglia: non l’aveva finita».

E poi?
«Quando chiuse il Tropical, mio padre rilevò il Centro Deposito Pellicce: un bunker refrigerato dove d’estate si tenevano al fresco le pellicce delle signore emiliane. Ce l’abbiamo ancora quel bunker, non lo vuole comprare nessuno, se davvero scoppia la guerra nucleare tornerebbe utile… Io facevo un po’ da contabile, un po’ da custode. Guardiano delle pellicce. Ovviamente mi annoiavo a morte. Ne approfittavo per scrivere canzoni».

Ligabue si racconta: “Ho fatto il mio primo concerto a 27 anni”

Una fuga notturna le salvò la vita.
«Era il primo agosto del 1980, un venerdì. Avevo una licenza dal militare, e con due amici storici decidiamo di andare a Rimini, in cerca di ragazze. L’idea è partire la mattina dopo in treno da Bologna: l’autostrada sarebbe stata murata. Invece cambiamo idea e andiamo in macchina la notte stessa. Il mattino ci svegliamo con le immagini della strage in stazione. Ci ho ripensato quando ho fatto il secondo film, Da zero a dieci».

[…] E A che ora è la fine del mondo? da cosa nasce?
«Dalla vittoria di Berlusconi nel 1994».

È vero che all’apice del successo lei voleva ritirarsi?
«È vero. Non mi andava di essere etichettato come rocker, di quelli costretti a girare sempre con gli occhiali scuri. Non mi andava di vedere i paparazzi pure a Correggio. Di farmi un nemico a ogni “non posso”. Di avere qualcuno dall’altra parte in attesa di qualcosa da me. Di sentire che avere successo significa svendersi. E poi il solito senso di colpa».

Invece?
«Invece mi sono reso conto che potevo fare canzoni per il piacere di farlo. E ho scritto Sulla mia strada : “Sono vivo abbastanza…”».

Lei ha sposato un’amica d’infanzia.
«A Donatella avevo dato una manata in faccia giocando a nascondino. Non l’avevo fatto apposta, ma lei aveva pianto tanto, e non per il dolore. L’ho ritrovata dopo anni. Una persona meravigliosa. Insieme abbiamo sofferto e siamo stati felici, abbiamo perso due gemelli e abbiamo avuto Lorenzo Lenny, il mio primogenito».

E lei l’ha lasciata.
«Un senso di colpa lacerante. Un trauma per lei e per me. Ma avevo incontrato Barbara. E non potevo mentire a tutti, a cominciare da me stesso».

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Con Barbara ha avuto una figlia, Linda, e un figlio nato morto, Leon.
«Ce lo fecero vedere. Me lo ritrovai in mano: un affarino di un chilo. Aveva i tratti della mamma. La voce di bambina della Barbara disse: è perfetto. L’ho fatto seppellire in un cimitero che ha un angolo chiamato degli angeli. All’inizio la Barbara ci andava tutti i giorni. Si sentiva come se il suo corpo fosse diventato marcio, incapace di dare la vita… Un pensiero ingiusto, ma il suo “sentire” la faceva stare così. Solo chi ci è passato lo capisce».

Lei racconta anche la morte di suo padre.
«Dopo l’intervento al fegato, un medico ci dice: lo volete vedere? Certo che sì. Solo che non ci porta da Giuanin, mio padre; ci mostra il tumore, le viscere, i segni infetti del male che l’avrebbe ucciso… Mia madre si sente svenire, mio fratello Marco stringe i pugni… Lui, Giuanin, non si lamentava mai. Non voleva disturbare. Un altro medico ci disse: preparatevi a un mese di calvario. Se ne andò il giorno dopo. Quand’ero ragazzo mi ripeteva: I musicista in tut di mort ed fam».

Lei fu operato quando perse la voce.
«La persi sul palco. Non ne sono sceso, non l’ho mai fatto; ma fu il concerto peggiore. Una grande paura. Barbara, che alla parte esoterica della vita ci crede, dice che l’ho persa per aver dato voce all’operaio di Made in Italy, il mio terzo film. Forse non c’entra niente; ma mi piace pensarlo».

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