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Fabio Volo: “Lombardi come pugliesi e siciliani per un aspetto. New York è la città in cui mi sento a casa”

Fabio Volo: “Lombardi come pugliesi e siciliani per un aspetto. New York è la città in cui mi sento a casa”. Fabio Volo sui lombardi e non solo, il conduttore radiofonico e scrittore bresciano, 50 anni, si racconta in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Fabio Volo è bresciano, di mamma bergamasca e nonno cremonese. E vive a Milano.
«Questo fa sì che mi senta profondamente lombardo. Noi lombardi non abbiamo quella cosa dei siciliani, dei pugliesi e dei sardi che si identificano nella loro regione e quando si incontrano all’estero si riconoscono. No, noi non diciamo mai: ‘Ciao, sono lombardo’. Ci identifichiamo di più nella città, nel comune: siamo milanesi, bergamaschi, di Sondrio. O di Brescia, come me».

[…] Qual è il suo tratto più «lombardo»?
«Noi lombardi siamo poco mediterranei, più vicini ai tedeschi. La cultura mediterranea ha un ritmo di vita più lento e lamentoso, mentre noi siamo più vicini al pragmatismo tedesco. Se ci succede qualcosa, cerchiamo subito di risolvere il problema, abbiamo una grande velocità di reazione alle avversità, non pensiamo mai “è colpa di…”, non attendiamo che qualcuno risolva il problema al posto nostro. Più che fare leva sul talento che non so di avere, non so nemmeno quale sia di preciso, nella vita mi ha salvato l’atteggiamento pratico che riconosco come lombardo».

[…] Lei è un lombardo cittadino del mondo.
«New York è la città in cui mi sento a casa quando lascio Milano. È un posto dove ho amici, conosco i negozianti, ho una specie di vita sociale anche là, oltre a un appartamento che spiega perché mi capiti di andarci spesso».

Dove?
«A Manhattan».

Fabio Volo: “Lombardi come pugliesi e siciliani per un aspetto”

Negozianti, amici. Cerca una dimensione cittadina anche nella metropoli per antonomasia.
«È la provincia che mi porto dentro. Le città grandi in fondo sono città piccole, perché poi vivi nei quartiere. Io nel West Village a New York sto per settimane senza nemmeno muovermi fino alla Quattordicesima, i miei amici mi prendono in giro. Vale anche per Roma. Mi piace stare il più possibile in mezzo alla vita normale. Anche a Milano porto i bambini a scuola, vado in latteria, al Carrefour, cerco di vivere nel tessuto sociale il più possibile, mi salva da tante cose».

Perché dice così?
«È la mia condizione. Sono diventato famoso a 30-31 anni, ero già formato, avevo già il mio stile di vita e i miei equilibri. Sono diventato riconoscibile quando avevo una personalità. Ho portato la mia persona dentro questa situazione e mi sento molto più sano, più strutturato emotivamente rispetto a quei colleghi che si perdono».

[…] Le piacerebbe vincere l’Ambrogino d’Oro?
«Mi piacerebbe vincerlo per aver fatto qualcosa di bello. Ma non ho la mensola con i premi, non li vinco mai. Dovrei fare un discorso lungo su questo, ma poi sembrerebbe la storia della volpe e l’uva. Non sono andato a scuola per tanto tempo e non si è mai strutturata in me la forma mentis che quando fai una cosa una persona ti dà un voto: vali il 5, il 7, il 9 del prof. Io ho avuto la formazione professionale con mio padre: il forno è la coscienza, se hai fatto bene le cose il forno te lo dice».

[…] Undici libri, otto milioni di copie, quattordici film. Anzi, quindici.
«Sì, ho appena finito di girare Una gran voglia di vivere, tratto dal mio penultimo romanzo: la regia è di Michela Andreozzi. E sto iniziando a lavorare alla sceneggiatura di Una vita nuova, l’ultimo, perché voglio fare un film anche di questo. Poi a settembre mi metterò a lavorare al prossimo romanzo».

E il regista non lo vorrebbe fare?
«Eh no, quello del regista è un lavoro vero e io sto cercando di evitarlo il più possibile».

A giugno ha portato i suoi figli sul set per la prima volta. Ha postato le foto su Instagram.
«Ero un po’ preoccupato perché dovevamo girare la scena in cui partivo per la prima volta in vacanza con il mio figlio del film: non sapevo come l’avrebbero presa. Invece si sono messi a giocare subito e sono diventati amici. È stato emozionante per me. Sebastian ha otto anni e mezzo, quasi nove, Gabriel otto. Non li avevo mai coinvolti prima».

Si rendono conto che lei è un personaggio pubblico?
«Non mi conoscono tanto come personaggio pubblico. Io ho avuto due grandissime forze trainanti: una la situazione economica della mia famiglia, che era devastante, quasi traumatica; l’altra un padre che lavorava sempre, dunque l’assenza del padre. Ogni tanto penso che i miei figli non hanno né l’una né l’altra. Credo di aver trascorso più tempo con loro di quello passato con mio padre tutta la vita. Loro non hanno mai sentito la mancanza del padre o della madre».

Danno per scontato l’agio in cui stanno crescendo?
«No, sia io che la mamma siamo attenti a dare valore alle cose».

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