Matt Dillon: “Marlo Brando? Un aspetto lo rendeva unico. La lezione più importante della mia vita l’ho avuta da Coppola”. Matt Dillon su Marlo Brando, la carriera e non solo, l’attore e regista statunitense, 60 anni, ripercorre le tappe più significative della sua carriera in una intervista a ‘Io Donna’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
Matt Dillon, la più grande sfida per un attore: essere Brando.
“Amo le sfide e Ultimo tango è uno dei miei film preferiti, ha avuto un grande effetto su di me. Brando ha rappresentato la mia scuola, ho fatto il mio primo film… non voglio dire l’anno (lo diciamo noi, era il 1979, il film Giovani guerrieri, ndr), avevo 14 anni, e Brando per me allora era solo Il padrino. Ma il regista con cui lavoravo, Jonathan Kaplan (che poi, nel 1988, avrebbe girato Sotto accusa con Jodie Foster, ndr), conosceva il cinema e veniva dalla scuola di Roger Corman e mi chiamava “Marlon”. Lo scherzo era cominciato perché io, che interpretavo un giovane delinquente, in una scena dovevo rompere un vetro e, per amore di realismo, lo volevo rompere sul serio. Jonathan allora ha cominciato a prendermi in giro: «Vai al diavolo, Marlon»”.
Matt Dillon: “Marlo Brando? Un aspetto lo rendeva unico”
Se inizi a 14 anni (e Dillon è stato scoperto per caso in strada un giorno in cui aveva marinato la scuola) hai solo il tuo istinto su cui fare affidamento. Lei però non si è fermato lì. Ha mai sentito di essere in pericolo?
“Se sei molto giovane è tutto pericoloso, non solo fare un film. Le capita mai di rivedere le foto di famiglia e chiedersi: «Oh mio dio, ero io quello? Ho messo davvero quella camicia, ma che gusti avevo?». Quel giovane, è chiaro, era una persona diversa da quello in cui la vita ti ha trasformato. Quello che succede in mezzo è un mistero. Ho rimpianti, certo, qualche servizio fotografico accettato all’inizio e che alla fine mi ha ridotto a un puro uomo oggetto, ma era difficile allora, per un ragazzo, prendere decisioni.
All’inizio ho semplicemente accolto quello che mi stava capitando. Ma quando, più tardi, ho davvero deciso con convinzione di diventare attore, allora mi sono iscritto all’istituto Strasberg, dove ho studiato per diversi anni. Guardare film era parte del programma scolastico e Marlon Brando, Montgomery Clift, James Dean erano i nostri punti di riferimento. Brando più di chiunque altro. Era “the american man”, il tipico americano, cercava a ogni costo la verità. E senza paura di far uscire allo scoperto la sua vulnerabilità. Questa era la sua forza, una forza che ti spezzava il cuore. Quando entrava in una stanza la potevi percepire”.
[…] La ricerca di intensità sui set è il prodotto di scelte misteriose e di magiche alchimie. Ci può raccontare come funziona?
“Non tutti i registi sono rispettosi. Coppola è il più rispettoso di tutti, dà all’attore grande potere. Ma io mi sono sentito mercificato da alcuni registi, e sono un uomo! Ero un giovane uomo quando è successo. E non mi è piaciuto. Non faccio fatica a immedesimarmi in quello che ha subito Maria”.
Matt Dillon: “La lezione più importante della mia vita l’ho avuta da Coppola”
Lei è stato parte di alcuni film indimenticabili, molti negli anni ’80. La lezione più importante avuta in quella stagione?
“Vorrei avere una risposta migliore da darle, tutta quell’esperienza è stata eccitante. Ma la lezione più importante l’ho certamente avuta da Francis (Coppola, ndr): la sua esuberanza, il fatto che per lui tutto sia da considerarsi possibile. Eravamo già in pre-produzione con il secondo film (Rusty il selvaggio, 1983, ndr) mentre stavamo ancora girando il primo (I ragazzi della 56° strada, 1983, ndr)!’.
Ha spesso interpretato antagonisti, uomini malvagi, anche cattivissimi…
“È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve farlo (ride). E c’è gente a questo mondo che merita di avere un antagonista come si deve. Quando ho girato La casa di Jack di Lars Von Trier ricordo di aver pensato che era il personaggio peggiore che avessi mai interpretato in vita mia. L’assistente alla regia provava a consolarmi: “Anche il personaggio di Willem Dafoe in Antichrist era terribile”. E io: “Ma quello ne uccide uno, io ne ammazzo 64!” E lui: “Guarda che sono 65…”. Ma come attore non puoi giudicare, mai. Nemmeno se il tuo personaggio uccide 65 persone”.
Non è neppure nuovo ai maschilisti, è stato l’alter ego di Charles Bukowski nel franco-norvegese Factotum nel 2005.
“Ho scoperto il grande poeta che era Bukowski proprio interpretandolo. Così umano, certo qualcuno direbbe misogino, ma io credo che amasse le donne. Di sicuro era una persona danneggiata. Ma era un romantico a modo suo. E Marlon ha fatto un errore, ma non credo sia una persona malvagia. Alla fine del film ho detto ad Anamaria: «Io e te abbiamo fatto una cosa davvero incredibile»”.
Matt Dillon: “Coordinatore di intimità porterà vantaggi in futuro”
C’era un coordinatore di intimità sul set per le riprese della famosa scena?
“Un sacco di gente detesta quelle figure, alcuni rifiutano di averli sul set. Io ci ho lavorato una volta sola, per questo film, e credo sia qualcosa che in futuro potrà portare vantaggi sia al regista sia agli attori. Al momento è come avere la polizia sul set pronta a fare le multe: «Fai questo, non puoi fare quello…». Io e Anamaria abbiamo fatto scene difficili, ci siamo parlati, ci siamo capiti, abbiamo fatto il possibile per fidarci l’uno dell’altra. Perché non solo le donne sono vulnerabili, lo sono anche gli uomini di fronte all’intimità.
C’era un’espressione usata fino a un po’ di tempo fa nelle stanze di produzione: Sex sells, il sesso vende, ma non credo sia vero oggi. Non necessariamente. La società è andata da un’altra parte. La pornografia ora è accessibile a tutti, non c’è più la pressione che c’era una volta nel cinema per mostrare il corpo in quel modo. È bella la scena in cui Maria, che dopo Ultimo tango è cresciuta e ha accumulato esperienza, reagisce al regista che la vorrebbe nuda in un momento del film in cui il nudo era assolutamente fuori luogo. E finalmente lei rifiuta”.
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