Home » Non solo il gusto, dal rumore alla forma, al peso delle posate: ecco cosa detrmina ciò che mangiamo. Lo studio 
Curiosità Gusto

Non solo il gusto, dal rumore alla forma, al peso delle posate: ecco cosa detrmina ciò che mangiamo. Lo studio 

Una ricerca sostiene che il cibo non si gusti solo tramite la bocca ma attraverso tutti e cinque i sensi

Avete mai fatto caso alla musica classica che suona, discreta, nei ristoranti più eleganti? O al peso delle posate e alle forme arrotondate dei tavoli e dei vassoi? Non sono frutto del caso, ma dettagli studiati appositamente per farci ordinare di più e quindi spendere. Trucchetti che ormai usano tanti locali e supermercati e per i quali si può incolpare un bizzarro professore di Oxford, Charles Spence, docente di psicologia sperimentale, che ha appena pubblicato in Gran Bretagna Gastrophysics, una nuova scienza, sostiene, che lui coltiva da 20 anni. L’assunto di base è che il cibo non si gusti solo tramite la bocca ma attraverso tutti e cinque i sensi. E basta qualche manipolazione per aumentare o diminuire la percezione di bontà di cibo e bevande.

Prendiamo il succo di pomodoro. Vi siete mai chiesti perché in aereo così tante persone lo ordinano? Tutta colpa del rumore di sottofondo del motore, che arriva a 80-85 decibel. “A questi livelli il suono sopprime la nostra abilità di gustare il sapore dolce, – spiega il professor Spence a Repubblica – Mentre esalta il cosiddetto sesto sapore, l’umami, presente in cibi come il pomodoro e le acciughe, che sono l’ingrediente principale per la salsa Worcestershire, essenziale per preparare il bloody Mary, un’altra bevanda molto popolare sugli aerei”.

Le ricerche di Spence hanno provato che il rumore e i suoni cambiano i sapori. Per questo le compagnie aeree usano sempre più nei loro menu alimenti umami (tra cui anche funghi, pancetta e soia). E i ristoranti stellati sperimentano il cosiddetto “sonic seasoning”, il condimento sonoro. La musica classica è meglio del pop, perché offre una percezione di sofisticatezza e una migliore predisposizione a spendere. E una melodia abbinata al cibo che si sta consumando ne potenzia il gusto. “Pensate alle lasagne accompagnate da un’aria di Verdi o al salmone scozzese con i Proclaimers”, esemplifica Spence.

Sullo stesso principio si basa un’altra scoperta del professore (insignita dell’Ig Nobel, quello che si conferisce alle ricerche più bizzarre): le patatine sono più buone se il sacchetto che le contiene è più frusciante.

Il tatto è altrettanto importante. Se le posate con cui ceniamo sono belle pesanti siamo convinti che il cibo sia di qualità. “Nel mio esperimento le persone che mangiavano con forchette e coltelli di un certo peso erano pronte a pagare per il medesimo piatto molto più denaro rispetto a quelle che avevano cenato con stoviglie più leggere. Il peso – sia nel packaging che nei piatti e decorazioni da tavola – viene percepito come sinonimo di sostanza, quindi di qualità”.

E prima di deliziare il palato, il cibo deve deliziare la vista. Perché i piatti sono generalmente rotondi (ma spesso anche i tavoli)? “Nel nostro subconscio associamo gli oggetti spigolosi al pericolo, forse perché ricordano le armi”, spiega il professore. “Mentre le forme circolari sono collegate a qualcosa di piacevole e dolce”.

Gli chef giocano molto sui colori. Per far percepire ai commensali un sapore fino al 10% più dolce basta colorare artificialmente il cibo o la bevanda di rosa-rosso. “E anche le aspettative contano”, sottolinea l’autore. “Persino i più esperti sommelier sono caduti in errore quando hanno dovuto assaggiare un vino rosso, appositamente camuffato da bianco, e viceversa”.

“Provate a tapparvi il naso e ad assaggiare un pezzetto di cibo, senza sapere cosa sia. Non avrete idea di cosa state mangiando”, assicura Spence. “Gli aromi sono importanti perché permettono al nostro cervello di formare un’aspettativa del sapore e di quanto quel sapore ci piacerà”. È per questo che nella cucina molecolare si usano spesso i profumi e gli aromi per accompagnare un piatto, ma anche per creare un’atmosfera nella stanza. Lo chef Heston Blumenthal, con cui Spence collabora, nel suo ristorante Fat Duck presenta una portata come fosse una zolla di terra ed erba, in sé non molto appetibile. Ma dalla porzione di prato si levano dei fumi dal potente odore di muschio che invitano ad assaggiare il piatto.

Come se questi trucchetti non bastassero, anche le nostre emozioni diventano uno strumento di marketing. “Se litighi con il tuo partner e poi vai a magiare nel ristorante migliore del mondo il cibo non ti colpirà particolarmente”, riflette Spence. “L’umore e le emozioni contano moltissimo. Alcuni locali mettono sui tavoli carte con barzellette, per ben disporli. Altri usano internet, Facebook, per esempio, per scoprire qualcosa dei commensali e poi cercano di personalizzare il menu o di offrire qualcosa che ricordi l’infanzia, ovvero che venga associato a ricordi felici. Sullo stesso principio adesso Starbucks o la Coca Cola scrivono il nostro nome su bicchieri e bottigliette. Tutti amiamo qualcosa di personalizzato, che sembra fatto appositamente per noi”.

Va detto che le ricerche di Spence sono finanziate per la maggior parte proprio dall’industria gastronomica e che spesso costituiscono uno strumento di marketing, anche se con basi scientifiche. E il prossimo passo? L’eccentrico professore cercherà di delineare la personalità di un soggetto semplicemente studiando i suoi gusti culinari.

Fonte repubblica.it

Loading...
Social Media Auto Publish Powered By : XYZScripts.com