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Max Pezzali: “San Siro il punto più alto della carriera. Un panino ha ispirato hanno ucciso l’uomo ragno”

Per Max Pezzali, San Siro è il punto più alto della carriera. Il cantautore si racconta in una intervista rilasciata a ‘Il Corriere della Sera’

Max Pezzali: “San Siro il punto più alto della carriera. Un panino ha ispirato hanno ucciso l’uomo ragno”. Il cantautore si racconta in una intervista rilasciata ai microfoni della collega Chiara Maffioletti per ‘Il Corriere della Sera’.

Il prossimo 10 luglio canterà a San Siro e il primo a non aspettarselo era proprio lui.
«Diciamo che questa vicenda di San Siro mi ha colto un po’ impreparato… sono piuttosto sotto choc».

In che senso?
«In tutti questi anni accarezzavo questo sogno ma senza crederci troppo. San Siro per me rappresenta il luogo, il punto di arrivo. Motivo per cui prima pensavo che i tempi non fossero maturi, poi che non lo fossero più. E questa idea rimaneva nella dimensione delle cose irrealizzabili, da guardare come fosse in una teca, senza avvicinarti troppo».

Poi?
«Poi un giorno mi hanno detto: perchè non ci proviamo? Ma anche lì non ci credevo troppo, mi sono mantenuto alla distanza a cui ero abituato… poi però è arrivato il giorno in cui abbiamo fatto davvero l’annuncio, è partita la prevendita e sono rimasto letteralmente scioccato. Mai avrei pensato a una adesione così di massa a questa idea».

Che ora però deve diventare qualcosa di concreto…
«Infatti sono nella fase della rielaborazione. Sto iniziando non solo a crederci, ma anche a dirmi che a questo punto dobbiamo fare la cosa più bella della vita, una notte che nessuno dimenticherà».

Non si rendeva conto di avere questo seguito?
«Eh, 25, 30 anni sembrano volati in un attimo. Non hai sempre un riscontro immediato, succede più che altro durante i live. Ma questa adesione di massa fa realizzare che qualcosa di buono con le canzoni lo hai fatto. È una dichiarazione d’amore che ricevo da parte delle persone che mi seguono e non vedi l’ora di dimostrare loro che hanno fatto bene a darmi fiducia».

In un’epoca in cui tutti si fanno più grandi di quello che sono, lei sembra piuttosto scegliere il basso profilo.
«Caratterialmente tendo a minimizzare le cose che mi riguardano. Mia madre ha origini contadine e mi ha sempre insegnato che anche quando c’è un’annata buona, magari quella dopo viene la carestia. In generale, le canzoni le scrivi, poi quando escono non sono più tue: non sai dove vanno, in quali casse suoneranno, su quali telefoni. Nei tour spesso mi accorgo di persone che cantano a memoria canzoni che mai avrei pensato sarebbero diventate così importanti».

Tipo?
«“Se tornerai”: quando parte la cantano tutti. Non riesco più a sentire la mia voce ma solo quella delle persone… allora capisci che è così importante per tante persone. Un po come “Eccoti”».

Max Pezzali: “San Siro il punto più alto della carriera. Un panino ha ispirato hanno ucciso l’uomo ragno”

Questa modestia non dipende anche dal fatto che un certo pop per anni è stato considerato meno nobile? Meno «alto»?
«Sì, senza dubbio. La mia adolescenza è stata prevalentemente negli anni Ottanta e sono stati quelli assoluti del pop, anni in cui il centro di tutto era la costruzione canzone, il ritornello classico che doveva tirare dentro, quella roba lì. E io questa idea l’ho sempre avuta mia, anche quando era considerato deteriore, quando non era considerato nobile quel tipo di costruzione, non di serie A. Oggi, per fortuna, le carte si sono rimescolate. Prima c’era un po’ di pregiudizio a priori».

E come ha vissuto questo pregiudizio?
«Essendo per mia natura prudenziale, ho sempre accettato le critiche cercando di capire il punto di vista di chi me le faceva e spesso comprendendolo. Tutto sommato, facevo tesoro delle critiche negative cercando di fare un po’ di analisi obiettiva. Ma alla fine arrivavo sempre alla conclusione che quella era la mia natura. Non saprei raccontare le cose diversamente, non mi verrebbe bene. Alla fine, comunque venga giudicato quello che faccio, almeno sono sicuro che è autentico, dalla prima all’ultima parola o suono».

Perché c’è questa ondata di nostalgia per gli anni Novanta?
«Primo perché per giudicare un periodo musicale bisogna sempre aspettare un attimo: serve allontanare il punto da cui si osserva la cosa. Erano anni in cui era centrale la melodia della canzone e in cui c’era un consumo meno compulsivo: le cose tendevano a rimanere, una hit era una hit anche per sei mesi».

Come spesso è successo a lei, no?
«Sì. Mi fa piacere quando oggi vedo i giovani artisti che si avvicinano a me con un rispetto immenso che contraccambio. Chi inizia a fare musica adesso deve essere un po’imprenditore, servono capacità molto più amplificate rispetto alla mia epoca, in cui facevi le cose nella tua cantina. Ma tutti quei ragazzi avvertono che in quelle canzoni, magari sentite nelle cassette dei fratelli maggiori o dei genitori, c’era autenticità. Raccontavamo, magari in modo poco raffinato o scintillante, cose autentiche e dirette. Anche chi non c’era in quel periodo, ha capito».

Eppure ha detto che credeva che ormai fosse troppo tardi per San Siro.
«Con estrema concretezza penso che San Siro è il punto più alto di una carriera e quindi lo devi raggiungere nel momento di maggiore contemporaneità di quello che fai. Se ho pensato che il tempo non fosse più maturo, all’inizio, era perché per riempire San Siro devi convincerle un sacco di persone: magari è più facile possa farlo un artista che sta arrivando all’apice del successo di uno esploso 20, 25 anni fa. Invece a 52 anni mi trovo travolto da questo affetto enorme da parte del pubblico: è bello che la vita riservi queste cose».

Momenti decisivi della sua carriera?
«Mi viene in mente un episodio legato ad “Hanno ucciso l’uomo ragno”: con Mauro Repetto avevamo scritto la musica ma il testo proprio non veniva. Dopo un po’ di giorni così ci siamo detti basta: ci sono canzoni destinate a non nascere mai, noi eravamo solo studenti universitari di dubbio livello, era un divertimento. E siamo usciti a mangiare un panino che ancora ricordo per quanto era piccante, con pancetta e tabasco… ecco, io dico che è stato proprio quel panino, qualche ora dopo, a farmi arrivare al testo che poi è diventato della canzone… Serviva uno choc emotivo per uscire dall’ovvio e penso me l’abbia dato il tabasco. Una volta scritta mi sono detto: o è la peggiore canzone mai stata scritta o è lei. Una roba del genere a mente lucida, senza il peso della digestione non mi sarebbe mai venuta».

Ci sarà anche Repetto a San Siro?
«Vorrei tanto che ci fosse. In questi giorni non riesco a non pensare a noi, 30 anni fa, quando tutto è partito. Inoltre, la prima volta siamo andati a San Siro proprio assieme: nel 1990, avevamo recuperato non si sa come due biglietti per la partita inaugurale del Mondiale, Argentina- Camerun. Ricordo lo splendore che avevamo negli occhi e se penso che lì eravamo due studenti squattrinati alla ricerca di una identità, ritrovarsi 30 anni dopo nello stesso posto ma così avrebbe un bel significato, sarebbe un giusto coronamento di questo cammino».

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