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Maurizio Ferrini: “In bolletta per i troppi rifiuti. Con due Rosari al giorno si ottengono risultati”

Maurizio Ferrini si racconta ripercorrendo le tappe della propria vita privata e professionale in una intervista rilasciata a ‘Il Corriere della Sera’

Maurizio Ferrini: “In bolletta per i troppi rifiuti. Con due Rosari al giorno si ottengono risultati”. L’attore celebre per il personaggio della signora Coriandoli parla della propria vita privata e professionale in una intervista rilasciata ai microfoni del collega Stefano Lorenzetti per ‘Il Corriere della Sera’.

Quando cominceranno le riprese?
«A gennaio. Non andrà nelle sale: solo su Instagram o YouTube, vedremo. Facebook no, è vecchio. Sfido gli influencer con un’opera gratuita destinata ai giovani che citano a memoria i miei film».

Può dirmi qualcosa della trama?
«Farò imparentare la signora Coriandoli con il figlio veterocomunista venditore di pedalò. Le do un’anteprima. Massimo Coriandoli, nickname Massimo Delirio: “Ho consigliato a Zingaretti di non aprire più sezioni del Pd, ma di fare un franchising, perché noi in Romagna siamo commerciali. Non ha risposto”. Coriandoli, se mi consentite, dichiara al Corriere: “Noi nelle politiche del 2018 siamo aumentati come Pd. Hanno telefonato poco prima a tutti i militanti e hanno detto: dovete votare Lega e 5 Stelle perché bisogna infiltrarsi, fare le casematte, come diceva Antonio Gramsci, distruggerli dall’interno, così dopo quattro anni gettiamo la maschera e rifondiamo il Pci. Ho chiesto: chi siete per affermare questo? E loro: meglio se non lo sai. Quindi significa che sono persone serie”».

Dunque farà due parti in commedia.
«Con pochi debuttanti. Una cosa molto neorealistica. “I napoletani sono tutti attori”, sosteneva Vittorio De Sica. Io correggerei: gli italiani sono tutti attori».

Perché ambientare il film a Verona?
«Il sogno della Coriandoli è di assistere all’Aida in Arena. Inoltre ho conosciuto Gianfranco Ballini, il Duca de la Pignata, una maschera del carnevale locale».

Chi ha inventato la signora?
«Fu il mio primo personaggio nel 1980. Parlava solo il romagnolo. Gianni Boncompagni le trovò il nome e mi fece recitare in italiano, travestito da donna».

La passione per il cinema come nasce?
«A 3 anni con Jerry Lewis, all’Astra, sala parrocchiale di Cesena, dove davano ogni giorno un film diverso».

Credevo che fosse cresciuto nel Pci, non all’ombra del campanile.
«Mio padre Domenico, detto Berardo, tornitore meccanico, è sempre stato comunista. Mia madre Rina il voto lo dava al marito per obbligo coniugale».

«Non capisco ma mi adeguo».
«Esatto. Lui faceva campagna elettorale a casa della sorella Elsa, che però scelse sempre la Dc per paura di finire all’inferno. Anch’io lo temo. Infatti recito due rosari al giorno, uno la mattina appena sveglio e uno la sera quando mi corico. Dà risultati pratici. Provare per credere».

Mi sta prendendo in giro?
«Nient’affatto. Sono molto devoto. Ho capito che arrivi a Gesù solo se passi attraverso la Madonna. Però le devi chiedere di esaudire un sogno molto grande. Se non esageri, non ti ascolta».

Ma lei è ancora veterocomunista?
«No. Il comunismo è una malattia esantematica, come il morbillo e la varicella. Se ce l’hai dopo i 20 anni, devi farti visitare da uno specialista. Molti sverranno leggendo questa mia affermazione».

I militanti del Pci avevano il borsello?
«Sì, dentro c’era il bagaglio culturale».

Soffre per il Pd?
«Per nessun partito. Nel campo del sapere non ci sono sinistra e destra. Il pollaio lo inventò la rivoluzione francese: è l’anfiteatro del Parlamento. Simone Weil diceva che i partiti in sé sono immorali, perché esistono soltanto il bene e il male. L’italiano è affascinato dalla polemica. “Vuole togliermi il gusto di litigare?”, replicò Fausto Bertinotti a chi gli chiedeva perché non andasse al governo».

Butta dalla torre Zingaretti o Renzi?
«Vorrei che si gettassero entrambi».

Renzo Arbore parlò del suo personaggio come di un «leghista ante litteram».
«Lo credo bene. Già nel 1985 voleva costruire il muro di Ancona per non far passare i meridionali».

Però andò a cantare «Bandiera rossa» nella tenuta reale di Stupinigi.
«Lo chiese Gianni Agnelli ad Arbore: “Così potrò depennare dalla lista degli invitati dell’anno prossimo tutti quelli che se ne vanno invece di ridere”. C’era il Gotha dell’imprenditoria nazionale. Smoking e lamé. Dissi: “Che bella questa festa dell’Unità, cantiamo l’inno”, e intonai: “Avanti popolo alla riscossa”. Metà degli ospiti scapparono via».

Che cosa la accomuna ad Arbore?
«L’amore per la musica country».

Credevo per la radio.
«Anche. Da bambini ce ne costruimmo una a galena. Il venditore di pedalò si abbeverava a tre fonti: la Scuola Radio Elettra, Rinascita e La Settimana Enigmistica. Le colonne della civiltà».

Come arrivò a «Quelli della notte»?
«Attraverso Nicoletta Braschi, già fidanzata di Roberto Benigni. Ad aprile 1983 infilò nel cappotto di Arbore la videocassetta di un mio spettacolino. Ad agosto 1984 lui telefonò a mia madre, una sorta di signora Coriandoli, che quasi si dimenticava di dirmelo. Lo richiamai. “Ci vediamo tra sei mesi”, promise. Cominciai a comprarmi abiti di scena e a scrivere tormentoni: abbiamo le mani legate; son cose che non si possono dire; in Russia abbiamo silos pieni di tutto».

Giovanni Minoli, capostruttura della Rai, metteva becco nella scaletta?
«Mai, da persona squisita qual è. Venne alle prove una sola volta, ma Arbore, serafico, lo cacciò: “Giovanni, togliti dalle palle, tanto questo programma non lo capirà nessuno. Sarà la nostra tomba”».

Invece aveste un enorme successo.
«Rivedo ancora Romano Prodi che cerca di entrare nello studio 1 di via Teulada e una ressa di curiosi che lo trascina via nel corridoio, con le mani alzate, come un’auto in un fiume esondato».

Dino Risi, Carlo Verdone e i fratelli Vanzina le aprirono le porte del cinema.
«Risi era un aristocratico distaccato che si godeva la vita. Verdone è un idealista, molto malinconico in privato. I Vanzina potevano girare film alla Chabrol».

Maurizio Ferrini: “In bolletta per i troppi rifiuti”

Nino Frassica sostiene che lei «non ha avuto la fortuna che meritava».
«Ringrazio la sfiga, perché mi ha fatto diventare ciò che sono. Il produttore Aurelio De Laurentiis mandò il suo autista a prendermi con la Mercedes. Il padre Luigi era un fine esoterista, parlammo tutta la sera di filosofia. Alla fine mi propose di girare Yuppies per 150 milioni di lire, che nel 1985 erano dei gran bei soldi».

Ma lei rifiutò. Perché?
«Cercavo una mia via al socialismo. Mi rimbomba in testa la voce di Sergio Leone, quando dissi no al ruolo dell’avvocato in Troppo forte, che non voleva affidare ad Alberto Sordi, ritenendolo superato: “Può ripetere, per favore?”. Anni dopo andai a cena dalla figlia Francesca, bellissima, avrei voluto farle la corte. E lei mi confidò che in casa sua si parlava ancora di me come “quello str… di Ferrini”».

A forza di rifiuti, finì in bolletta.
«Dissi no a Giuseppe Bertolucci: fu considerata lesa maestà. Idem a Fatma Ruffini di Mediaset: equivaleva a snobbare la granduchessa di Toscana. Cominciò a circolare una voce: “Ferrini è fuori di testa, inaffidabile”. Per fortuna non dissero: “Porta iella”. Lì l’unico rimedio sarebbe stato il cappio. Mi venne in soccorso la sorella di Benizzi Ferrini».

Lo intervistai. A Predappio stampava il calendario del Duce e girava con il fez.
«Lele Mora, noto nostalgico, andava nel suo negozio a fare scorta di gadget fascisti. Gli parlò di me. Mi ritrovai all’Isola dei famosi, nella Repubblica dominicana. Senza cibo. Di notte pioveva sempre. Per non bagnarsi, pantegane con 20 centimetri di pelo entravano nelle tende e ti camminavano sulla pancia. Una concorrente, pur di andare in finale, s’inventò che le avevo messo una mano sul seno. Fu sbugiardata. Simona Ventura mi chiese: “Vieni in tv a discolparla? Le donne la prendono a calci per strada”».

Che cosa la fa più ridere?
«La tragedia secondo Mel Brooks: ti radi e ti procuri un taglietto. La commedia: inciampi, cadi e muori. Ah ah ah».

E piangere?
«La gente che tenta di preservare la propria dignità anche se è povera».

Avrebbe avuto lo stesso successo con una cadenza piemontese?
«No. Ho sotto i piedi un filone d’oro».

Quindi che cos’è che renderebbe i romagnoli più simpatici dei piemontesi?
«Forse la parlata accondiscendente. I piemontesi non vogliono socializzare. Lo stesso i liguri: sognano che gli fai il bonifico, senza andare in vacanza da loro».

Perdere i capelli è stato un dramma?
«Di più. Peggio che perdere la virilità».

Mi confessi un suo segreto.
«I western di Leone non mi piacciono. Preferisco La carovana dei mormoni».

Un po’ evasiva, come confessione.
«Da ragazzo m’innamoravo solo platonicamente. Al momento di dichiararmi, mi bloccavo. Ebbi il primo rapporto sessuale a 23 anni. Non lo dica a nessuno».

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