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Cultura

Starnone: “Elena Ferrante non sono io. Matrimonio duraturo? La ricetta in 3 dettagli”

Domenico Starnone è Elena Ferrante? Lo scrittore napoletano smentisce in una intervista rilasciata a ‘Il Corriere della Sera’

Domenico Starnone: “Elena Ferrante non sono io. Matrimonio duraturo? La ricetta in 3 dettagli”. Lo scrittore napoletano nega e racconta la sua versione in una intervista rilasciata a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Le è mai capitato che una ex si riconoscesse in un romanzo e volesse denunciarla?
«A me no. Io penso che chi scrive deve essere imprudente e impudente, se no, non viene fuori niente. Ma questo non ha a che fare col raccontare i fatti propri. È vero: in Lacci c’è una crisi coniugale, come nella mia esperienza, ma non è la storia di Aldo che s’innamora di Lidia e lascia moglie e figli, è la storia dei danni che fa una falsa riconciliazione, di un letale ritorno a casa, che nel mio vissuto non c’è stato. Poi, come consigliava Italo Svevo, perché una storia funzioni, il primo a doverci credere è l’autore, per cui, io uso dei punti fissi del mio percorso: il marito, il professore, il primo matrimonio, ma il processo di reinvenzione è fondamentale se il racconto vuole significare più di quanto hai vissuto».

Com’è stata l’infanzia vera in via Gemito?
«Sono nato quando i miei genitori erano sfollati fuori città perché su Napoli infuriava la guerra più spaventosa, ma quello che so è integralmente filtrato attraverso il racconto epico di mio padre, protagonista assoluto, che ingigantisce i fatti, parte col calesse per cercare il medico che mi farà nascere e offre cifre enormi a chi lo aiuta, mentre la partoriente resta nello sfondo… Come vede, anche il racconto biografico ha componenti letterarie. La memoria, più che un imbroglio, è la prima forma di racconto e Via Gemito è orchestrato attorno a un tema essenziale per la letteratura: raccontare bugie per cercare la verità».

Quel bambino che il padre voleva spavaldo e che si sentiva invece smarrito, non all’altezza delle aspettative, è bugia o verità?
«Sono stato un bambino timidissimo e spaventato dal padre. Quest’uomo ci metteva poco a perdere la pazienza, però non se la prendeva mai con me, ma sempre con mia madre. Poi, i momenti di violenza si moltiplicano nella memoria. Quelli rigorosamente accertati erano pochi, ma mi sono sembrati terribili».

[…] Lei ha tre figli, ormai quattro nipoti. Che papà crede di essere stato?
«Non credo un buon padre. Sono stato uguale a quello di Via Gemito. Non nell’aggressività, ma nella dominanza di una passione. Per lui, era la pittura, per me lo scrivere. Scrivere mi piaceva quanto insegnare e insegnare quanto scrivere. Forse, avere un buon rapporto coi figli significa non distrarsi facilmente e io sono stato un uomo facilmente distratto dalla piacevolezza del suo lavoro».

È stato anche un marito distratto dalla piacevolezza del suo lavoro?
«Questo dovrebbe chiederlo a mia moglie».

Chiedo a lei un piccolo esame di coscienza.
«Sono, in effetti, un marito molto preso da cose da fare a cui attribuisco importanza».

Però con la sua seconda consorte, la traduttrice Anita Raja, sta da oltre 40 anni.
«Si dura se si hanno un legame forte, autoironia e interessi in comune. Questo matrimonio è più complesso e ricco del primo perché è molto fondato sul divertimento reciproco».

Starnone: “Elena Ferrante non sono io”

[…] E se quella parola fosse «Elena Ferrante»? Si narra che ci siate voi due, o uno di voi, dietro lo pseudonimo della scrittrice.
«Allora alluderebbe a una storia banale, piuttosto consumata, che un tempo, mi avrebbe infastidito, perché avevo l’impressione che mi togliesse qualcosa. Ma ormai, vivo la questione come un gioco a cui sono più o meno costretti i giornali».

Di cosa sono fallite le coppie della sua generazione?
«I nostri genitori sono stati giovani in epoca fascista e tutto quello che accade dopo è il tentativo da parte nostra di rovesciare l’esperienza soffocante di famiglia fondata sul patriarca che ha sempre l’ultima parola, che alla moglie civettuola che si è messa due pettini nei capelli può gridare, al culmine di un litigio, la misteriosa parola “vanesia”, a cui attribuisco la mia passione per la letteratura: aveva un suono estremamente dispregiativo, ma non sapevo che significasse. Pensi cos’è far esplodere la parola vanesia in urla tutte in napoletano…».

Spesso le coppie che racconta soffrono della competizione fra i due, con donne che vogliono farsi largo, avere voce. Lei questa competizione quando l’ha vissuta o schivata?
«Era nei fatti: noi ragazzi, fino a metà degli anni 60, siamo cresciuti con l’idea che eravamo il centro dell’autorità, che nei musei spiegavamo alla fidanzata quanto era meraviglioso un quadro e lei ascoltava a bocca aperta. Il racconto di come questa cosa viene smontata, un po’, l’ho fatto in Eccessi di zelo, in Denti».

Lei come si è affrancato da quel modello?
«In modo traumatico. I miei si erano sposati per stare insieme per l’eternità, la legge scritta e no era quella. E quella famiglia, ai miei occhi, era da non riprodurre. Poi, mi sono fidanzato nel ‘62 e sposato nel ‘66. Il primo dei nostri due figli è nato nel ‘68. Mi sono trovato in un ingranaggio in cui riproducevo la stessa famiglia, anche se in modo più moderno, con gente che legge fino alle tre di notte, ma il congegno era uguale. E però i tempi cambiavano, quindi, nel ’77, c’è stata una rottura dolorosa: allora, col divorzio appena introdotto, non erano cose su cui potevi cadere senza spezzarti le ossa».

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