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Spettacolo

Ermal Meta: “Rivoluzione? La gente non muove il cu** per un motivo. A 12 anni ho conosciuto la dittatura”

Ermal Meta, la rivoluzione, la dittatura vissuta da ragazzino in Albania e non solo: l’intervista a ‘Il Corriere della Sera’

Ermal Meta: “Rivoluzione? La gente non muove il cu** per un motivo. A 12 anni ho conosciuto la dittatura”. Il cantautore albanese naturalizzato italiano si racconta in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

[…] Una volta le canzoni di protesta accompagnavano le rivoluzioni, oggi siamo tutti più individualisti…
«Non ci sono più le canzoni di protesta perché oggi nessuno protesta più. La gente non si ribella perché ha smesso di parlare l’un con l’altro: esprimere le proprie opinioni è diverso dal condividerle. La condivisione è fertile, diventa discussione, lascia un seme che può germogliare e si trasforma in qualcos’altro. Ci dovrebbe essere più consapevolezza di cosa vuol dire vivere in società».

Qual è dunque il senso della musica?
«La musica può avere tanti obiettivi. Nasce da un moto di spirito, la musica è una sorta di volano che genera momenti di benessere mentale e rilassamento interiore, ma è anche un modo per unire le persone attraverso delle scelte comuni. Tanti ragazzi interagiscano fra di loro attraverso le scelte musicali, i gusti nascondono affinità tra le persone: avveniva quando avevo 15 anni e credo che non smetterà mai di accadere».

[…] Che ricordi ha della prima rivoluzione?
«Avevo 12 anni, il cielo era plumbeo, era davvero un cattivo presagio. Le rivoluzioni nascono sempre da un’esigenza, dalla mancanza di qualcosa. Quel giorno rimasero a terra 13 persone. Ma in quei momenti c’era la volontà di cambiare; la gente era stanca, stufa, perché non c’era più niente da perdere. La differenza è che quando la gente non ha qualcosa da perdere non muove il culo. Per questo chi parla di rivoluzione mi fa ridere, io l’ho vissuta, so com’è».

Le piace la parola tolleranza?
«Ho sempre avuto un grosso problema con questa parola, la odio, significa accettare malvolentieri, sopportare… è una coperta di qualcosa che non si vuole guardare. Dentro la parola tolleranza c’è già un pregiudizio, sarebbe bello sostituirla con parole come cultura e conoscenza. E torniamo al destino universale: il destino universale vuole insegnare la normalità, noi siamo persone che condividono lo stesso tempo».

[…] Da un ministro di sinistra come Franceschini si aspettava di più per la musica?
«Ribalto la domanda. Come mai dalla destra ci si aspetta un occhio meno attento alla cultura? Io poi non sono né di destra né di sinistra (per scelta personale: il regime in cui ho vissuto fino a 13 anni era comunista). Mi aspettavo di più non per i cantanti — quelli famosi non se la passano male —, il problema sono quelli che lavorano con gli artisti, loro sono in difficoltà. Sapere che il mio tecnico personale si è messo a fare il fabbro non mi fa stare bene. Di questo si deve occupare lo Stato: è vero che è una situazione di emergenza, è vero che nessuno ha la bacchetta magica, ma mi aspettavo un occhio più attento alla cultura che è la memoria storica di un Paese».

Al di là del talento, qual è la qualità umana che le ha permesso di emergere?
«Il talento se non viene esercitato è qualcosa che ti frustra, credo molto nella parola volontà. La costanza è l’attitudine che mi ha permesso di emergere: conta più la disciplina del talento».

I social la convincono?
«Sono strani. Sono uno strumento incredibile per tante cose ma hanno un rovescio della medaglia altrettanto incredibile in negativo perché permettono di assaggiare la superficie delle cose, senza vedere cosa c’è in fondo. Diciamo che sono un grande nostalgico della cabina telefonica, ma non lo scriva che se no sembro un vecchio decrepito».

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