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Spettacolo

Claudio Bisio: “Derby era il locale della mala. Avevo detto no a Benvenuti al Sud. Il mio vero maestro non sapeva di esserlo”

Claudio Bisio: “Derby era il locale della mala. Avevo detto no a Benvenuti al Sud. Il mio vero maestro non sapeva di esserlo”. Secondo Claudio Bisio il Derby era il locale della mala, l’attore, comico e conduttore piemontese, 66 anni, rivela alcuni retroscena legati alla sua carriera in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

La gavetta l’ha fatta al Derby, lo storico locale di cabaret milanese.
«Era ben diverso dallo Zelig: era il locale notturno della mala, il pubblico era fatto di gente che arrivava dalle corse dei cavalli, maîtresse e biscazzieri; io sono arrivato nell’ultimo periodo, a cavallo degli anni 80, con l’ultima generazione di comici, Faletti, Salvi, Paolo Rossi, Iacchetti. Era una fatica vera, iniziavano alle 11 di sera e si andava avanti fino alle 2 di notte e oltre, quando arrivava una fauna strana. Mi chiedevo dove era stata questa gente fino alle 2, ma era meglio che non mi rispondessi».

Era in coppia con Antonio Catania.
«Facevamo cose improbabili e improvvisate. Poi siccome eravamo neofiti, i vecchi ci fregavano. Ci facevano aprire il venerdì o il sabato alle 11, quando ancora non c’era nessuno. Andavamo a lamentarci e allora ci dicevano: dai martedì chiudete voi, ma era uguale, perché a quell’ora durante la settimana c’era poca gente. È stata una bella scuola, difficile far ridere in quella situazione, spesso con gente di spalle, perché mangiavano e non ti davano retta».

La serata peggiore?
«Discutevo con Paolo Rossi perché io sostenevo l’idea che quando fai cabaret — a differenza del teatro — devi andare senza testo, senza rete: devi solo improvvisare. Lo teorizzavo ed ero così folle da metterlo in pratica. Ne venivano fuori serate stupende, strepitose (me lo dico da solo) ma altre drammatiche, disastrose dove avrei voluto solo schiacciare un bottone e scomparire. Poteva essere il Derby, o lo Zelig (il locale), erano gli Anni 80. Vedi salire sul palco un pelatino sconosciuto: se non ti fa ridere è un disastro. Dopo un paio di serate veramente storte ho cambiato idea: almeno una traccia, un inizio e una fine li devi avere».

Claudio Bisio: “Derby era il locale della mala”

Il più bravo con cui ha lavorato?
«Il mio maestro a sua insaputa è stato Dario Fo, andavo di nascosto a vedere le sue prove. Lo conobbi quando avevo solo 15 anni, durante un’occupazione al Cremona, il liceo scientifico. Gli chiesi se poteva venire da noi a scuola, convinto dicesse di no. Invece anche se non mi conosceva rispose subito di sì. Praticamente ci fece Mistero Buffo nell’Aula Magna e io rimasi affascinato da quell’affabulazione, dai versi di Cielo d’Alcamo e di Cecco Angiolieri. In quel momento ebbi la folgorazione sulla via di Damasco; mi dissi: io voglio fare quella cosa lì, senza sapere bene cosa fosse. Decisi di prenderlo come modello e maestro, i miei spettacoli in fondo sono delle affabulazioni».

[…] Di cosa si è pentito?
«Ho detto no a qualche film — non dirò quali — e poi mi sono mangiato le mani».

È vero che stava perdendo anche «Benvenuti al Sud»?
«Ero reduce da una tournée lunga e volevo andare in vacanza, così dissi di no, che potevo girare, ma solo da settembre. Per fortuna spostarono le riprese se no mi sarei mangiato le mani fino all’avambraccio. Mi chiedo anche chissà chi l’avrebbe potuto fare al posto mio».

Claudio Bisio: “Regista? Sono un pazzo”

[…] Adesso ha debuttato anche come regista…
«Sono un pazzo. Nel momento in cui uno può godersi 43 anni di carriera mi sono messo in un’impresa durata quattro anni e mezzo».

Il suo film (ora nelle sale) è «L’ultima volta che siamo stati bambini», tratto dal libro di Fabio Bartolomei. È la storia di tre bambini che decidono di partire in segreto per convincere i tedeschi a liberare il loro amico ebreo catturato nel rastrellamento del ghetto di Roma del 1943.
«Una storia di finzione dentro una realtà più che vera, una vicenda reale ma allo stesso tempo surreale. Mi ha affascinato l’idea di raccontare l’orrore senza mai mostrarlo, narrarlo attraverso lo sguardo disincantato e inconsapevole di tre bambini di nove anni. Il cuore di questo racconto è rappresentato dai bambini, dal loro agire, dalle loro parole e pensieri che imprimono alla storia un tono leggero e ironico. Buffo, malgrado tutto, perché in realtà loro sono serissimi».

Qual è la scommessa?
«Cercare leggerezza di racconto, di dialoghi e di recitazione in un contesto tragico. La strada è quella di Jojo Rabbit, Train de vie, La vita è bella… E poi mi ha sempre attratto raccontare il momento del superamento della linea d’ombra, quella fase in cui da adolescenti si diventa adulti».

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