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Spettacolo

Wim Wenders: “Giappone la mia patria spirituale, in America mi sono accorto di essere un dannato tedesco”

Wim Wenders: “Giappone la mia patria spirituale, in America mi sono accorto di essere un dannato tedesco”. Wim Wenders sul Giappone e non solo, il regista, sceneggiatore e produttore cinematografico tedesco, 78 anni, si racconta in una intervista a ‘Io Donna’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Perché il Paese del Sol Levante l’affascina tanto?
“Apprezzo il senso del servizio e del “bene comune”. Una volta – ero là per le riprese di Fino alla fine del mondo – è venuto a trovarmi un amico dagli Stati Uniti, e si è stupito per la quantità di mascherine (trent’anni in anticipo sulla pandemia!): “Hanno terrore di prendersi un banale virus?”. “Non hanno terrore. Temono di avere un raffreddore e intendono proteggere gli altri”. Non mi voleva proprio credere… E il concetto di bagno pubblico è assai diverso da quello di noi occidentali: non esiterei a definirlo un mini-santuario di pace e dignità. Il Giappone è stato a lungo la mia “patria spirituale””.

Cees Nooteboom in Cerchi infiniti (Iperborea) afferma che dobbiamo rassegnarci: è impossibile capirne completamente la cultura.
“Concordo: più vedo, meno capisco. Ma va bene così. I film di Yasujirō Ozu hanno rappresentato la mia educazione cinematografica e non solo, con quelle storie di regole familiari, padri, madri, figli, amore, morte… L’ho considerato un papà, poi mi sono dovuto arrendere”.

A cosa?
“Per un periodo ho abitato in America, e lì ho realizzato che ero un dannato tedesco, che lo sarei rimasto e che dovevo accettarlo. Un tedesco romantico, però”.

Wim Wenders: “Giappone la mia patria spirituale”

Lo si capisce dalla descrizione del protagonista di Perfect Days, che – intuiamo – viene da un ambiente agiato e ha scelto con consapevolezza un impiego umile.
“Quest’uomo rappresenta un piccolo pezzo di utopia. Nelle nostre vite manca la sensazione di vero appagamento: manca enormemente, sono il primo a confessarlo. La terribile malattia dei tempi è la paura di perderci qualcosa, mentre la caratteristica principale di Hirayama è che non gli manca nulla”.

È stato addirittura inventato un acronimo: Fomo (Fear Of Missing Out, paura di essere esclusi).
“Sui device abbiamo Netflix, Amazon, Apple e il resto, oltre a una “biblioteca musicale“ di milioni di canzoni: è impossibile guardare o ascoltare dall’inizio alla fine. Lui, invece, ha tutto quel che gli serve”.

Qual è il segreto per “contenere” l’insaziabilità?
“Se ci poni l’attenzione, ti accorgi che ti basta di meno: apprezzi quel che hai e ne gioisci. Hirayama non possiede uno stereo, non può sbizzarrirsi su Spotify: ha le cassette dove ha registrato i brani prediletti, le stesse di quando era giovane, che ha conservato. E continua a essere felice quando mette Sitting on the Dock of the Bay di Otis Redding”.

Ci sono hit dagli anni ’60 agli ’80: dai Kinks ai Velvet Underground a Patti Smith… In realtà, sembra la sua personale playlist: ha portato sul set le vecchie musicassette?
“Se le avessi, avrei guadagnato una fortuna! Non è una boutade quando, nel film, si dice che una cassetta vintage può costare 120 dollari! Stanno tornando di moda pure i walkman, per quanto veda per lo più gente camminare o pattinare con queste enormi cuffie in testa sparandosi musica ad altissimo volume nelle orecchie. Peccato, il silenzio è una cosa preziosa di cui godere! In particolare di notte, visto che ho bisogno di dormire con le finestre aperte”.

Wim Wenders: “In America mi sono accorto di essere un dannato tedesco”

[…] Lei è ottimista?
“Ma sì, direi che sono nato ottimista: ho sempre sentito che il pessimismo non ti porta da nessuna parte. Cerco di godermi ogni attimo senza proiettare sul futuro, un’attitudine che puoi coltivare”.

Pratica meditazione per “coltivare”?
“Non in senso stretto: mi sforzo di stare al cento per cento sul momento. Ho provato a meditare ma penso sia troppo duro per uno che tende all’irrequietezza”.

Ma Perfect Days è il contrario dell’irrequietezza, è l’elogio della routine…
“La routine non è monotonia, contiene libertà! La bellezza di tenere un ritmo regolare, all’apparenza identico, è che ti consente di apprezzare le micro-variazioni giornaliere: se impari a stare nel qui e ora scopri che non si tratta di una sequenza ripetuta, ma di una catena infinita di momenti unici, incontri unici. Se ogni sera vai a cena nel medesimo locale non è mai la stessa cosa. A me piace frequentare i soliti posti, dove ti presenti e, senza neppure ordinare, ti servono il tuo drink preferito”.

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