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Spettacolo

Paola Cortellesi: “Social pericolosi soprattutto per un aspetto. Femminicidi segno di un’idea maschile in particolare”

Paola Cortellesi: “Social pericolosi soprattutto per un aspetto. Femminicidi segno di un’idea maschile in particolare”. Paola Cortellesi sui social, i femminicidi e non solo, l’attrice, comica e regista romana, 50 anni, si racconta parlando a tutto tondo in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Paola Cortellesi, dopo questo anno per te fantastico, cosa ti auguri per quello che viene?
«In primo luogo che vengano difesi i diritti delle donne. La grandezza dell’approccio che le donne hanno avuto nelle loro battaglie fa sì che le loro conquiste non si presentino mai come obbligo per l’individuo, ma come possibilità per ciascuna. Per fare in modo che milioni di persone di sesso femminile non fossero costrette ad andare avanti nella vita “come se niente fosse”, si è stabilito, dopo dure battaglie, che potessero scegliere. Scegliere di sposarsi e di divorziare, scegliere di mettere al mondo un figlio quando hanno deciso di farlo (quanto ancora c’è da fare per le donne single..). La posizione opposta è un divieto, un obbligo. Prendiamo la legge sull’aborto. È una grande conquista che dovrebbe essere accompagnata da politiche attive a favore di una maternità consapevole. E invece l’unica cosa di cui si parla oggi, anche negli Usa, è di mettere in discussione la libertà di scelta della donna. Io ho preso sul serio la promessa dell’attuale premier, una donna, di non toccare la legge 194».

Paola Cortellesi: “Femminicidi segno di un’idea maschile in particolare”

I femminicidi continuano, in tutto il mondo.
«Non smettono, lo vediamo ogni giorno. Sono il segno di un’idea di possesso maschile che è dura a morire. Però, specie dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, ho visto dei segni importanti di risveglio della coscienza, specie tra i giovani. Nelle manifestazioni c’erano tante ragazze, ma anche tanti ragazzi che si stanno mettendo in discussione. Mi sembra che si stia imparando a coltivare le parole giuste e lo si faccia insieme, donne e uomini. Ecco un altro augurio per il 2024. Che le parole prendano il sopravvento sulla violenza, che le si allevi insieme, perché sono lo strumento principale capace di assicurare una vita comune. Le parole scambiate, accettate, sono il contrario della violenza».

[…] Paola piccola…
«Condividevo la stanza con mia sorella, che ha sette anni più di me. Sulla parete vicino al mio letto c’era il poster di John Taylor, era il periodo dei Duran Duran. Ovunque, disseminati, gli stickers della rivista Cioè. E un pallone da basket. Amavo l’Nba, seguivo le sue partite, veneravo Magic Johnson e ogni anno era una festa quando mio fratello mi portava a vedere gli Harlem Globetrotters al Palazzo dello Sport. Ma a giocare ero scarsissima. Ero scoordinata, per di più mancina e se per un caso sventurato mi trovavo a destra sbagliavo sempre il terzo tempo. Ero davvero improbabile, a basket. Il pallone era nella mia stanza un po’ come una decorazione e un po’ come emblema delle mie imperfezioni».

Paola Cortellesi: “Il teatro era scelta bizzarra per i miei”

[…] Che facevano i tuoi?
«Mio padre ispettore di commercio, mia madre casalinga, era anche una sarta bravissima, una modellista perfetta. Io ho studiato al liceo e poi mi sono iscritta a Lettere, indirizzo musica e spettacolo, che ho lasciato a metà percorso per studiare teatro. Volevo fare questo, nella vita. Ma per la mia famiglia era una scelta bizzarra, non era il nostro mondo. Per cui sembrava solo un sogno, uno di quelli meravigliosi che si fanno da ragazzi. I miei volevano solo proteggermi da eventuali delusioni. Ma non mi hanno mai tarpato le ali, mai hanno fatto prevalere le loro legittime preoccupazioni sulla mia passione. Mi hanno seguito con affetto e discrezione».

Come hai iniziato a cantare?
«A sette, otto anni mi divertivo a riprodurre a voce l’assolo di Mark Knopfler in “Tunnel of love” e i miei cavalli di battaglia erano “Bycicle race” dei Queen e “Honesty” di Billy Joel. Dai 17 ai 21 anni cantavo nei locali con varie band. Abbiamo fatto l’Estate Romana, siamo stati al Centrale del Foro Italico con la band di cover pop-rock, al Big Mama con la band di cover blues e molto nei piano bar, dove notoriamente non ti ascolta nessuno e a volte pensi anche di dare fastidio. Io mi portavo da casa leggio e microfono. Ma ero timida, mi sarebbe piaciuto avere l’abilità di intrattenere anche parlando. Allora non conoscevo il Teatro canzone di Giorgio Gaber, poi una ragazza mi consigliò di fare una scuola di teatro e io la stetti a sentire, per fortuna. Non l’ho mai più vista, dovrei ringraziarla».

Paola Cortellesi: “Con il film volevo raccontare i diritti delle donne”

[…] Come ti è venuta l’idea del film?
«Volevo raccontare i diritti delle donne. In particolare di quelle donne che non si è mai filato nessuno. Ho ascoltato tanti racconti di nonne e bisnonne che hanno vissuto quel tempo. Per questo il film è in bianco e nero, perché quando loro parlavano io le immaginavo così, le loro storie. Storie raccontate con disincanto, quasi con fatalismo. Nel film sono rappresentate dalle donne che commentano tutto nel cortile. Mi è rimasta nella testa una frase che dicevano, a proposito di quelle, tra loro, maggiormente vessate: “Eh, porella”. Da piccola ascoltavo i loro racconti e mi sembrava che ci fosse una contraddizione, come uno stridere, tra la drammaticità del racconto di queste donne schiacciate dai mariti violenti e il tono che usavano, quasi leggero».

[…] Ti aspettavi l’incredibile successo di questi mesi? Il tuo film è nella top ten dei dieci più visti nella storia del cinema in Italia e il quinto di quelli prodotti nel nostro Paese. Credo anche l’unico diretto da una donna…
«Ovviamente no. Speravo che si diffondesse, magari crescendo nel tempo, un’emozione. Quello che sognavo erano sale piene e grande partecipazione emotiva. Quando lo abbiamo scritto, con Giulia Calenda e Furio Andreotti, ci siamo detti quanto fosse perfetto l’ equilibrio tra i registri ne “La vita è bella” di Roberto Benigni, un film che ho molto amato proprio per la capacità di raccontare la più spaventosa tragedia dell’umanità attraverso la leggerezza. Quella di cui parla Italo Calvino: “Leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Essere lievi non significa togliere gravitas al dolore, per me. Un altro film che mi colpì, in questo senso, è “Il grande dittatore” di Chaplin. Il mondo che stava precipitando in una guerra spaventosa era rappresentato con la leggerezza di un pallone gonfiabile con cui il despota di turno giocava, come fosse cosa sua».

Paola Cortellesi: “Social pericolosi soprattutto per un aspetto”

[…] Nella «massa» ora ci sono anche i social…
«Li trovo pericolosi. Io li utilizzo per promuovere il mio lavoro o condividere cose belle o divertenti, ma non capisco perché debbano essere la vetrina della propria vita personale. Che senso ha esporsi, per come ti vesti o come mangi, al giudizio di persone che non conosci? Mi preoccupano soprattutto gli adolescenti, il cui impatto con la vita, nella stagione della loro formazione, avviene in un clima di tribunale permanente. Non tutti hanno la forza di superare critiche feroci e derisioni. Avere un “pubblico”, a quattordici anni, è pericoloso, molto pericoloso».

Tu hai sempre affrontato la vita e il lavoro con leggerezza, non sei certo una persona «pesante».
«Non lo so. Un po’ è il mio carattere, un po’ l’ho coltivata. La pratica della leggerezza ti aiuta a rifiutare il rancore, l’odio, l’astio, la volgarità, la spietatezza. Tutte cose che cerco di fuggire. Non è che mi piacciano tutti, ma, a fatica, cerco di passare sopra a quello che mi potrebbe dare dolore. Ora so che tutto sparisce velocemente e che molto non merita il mio dolore. Cerco, anche qui, di usare l’umorismo come forma di autodifesa».

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