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Gabriele Salvatores: “A Milano cartelli contro i napoletani quando arrivai. Oscar? Pensavo fosse uno scherzo”

Gabriele Salvatores: “A Milano cartelli contro I napoletani quando arrivai. Oscar? Pensavo fosse uno scherzo”. Gabriele Salvatores su Milano, gli amori, la carriera, e non solo, il regista premio Oscar napoletano, 73 anni, ripercorre le tappe della sua vita in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

«[…] da settantatré anni convivo con qualcosa di molto diverso: l’ansia. Ho paura di tutto, anche delle piccole cose quotidiane. Solo quando giro un film mi calmo del tutto».

Famiglia napoletana di antico lignaggio, l’arrivo a Milano negli Anni 50. Com’è stata la sua giovinezza?
«Me li ricordo i cartelli contro i napoletani, ma per fortuna ho avuto un padre solido, un avvocato crociano che quando mi vide con i capelli lunghi non fece scenate ma si limitò a ordinarmi di camminare sul marciapiedi opposto a quello dove passava lui».

Il primo grande amore della sua vita.
«Mia madre Luciana, che sostenne in gran segreto la mia vocazione artistica. Ma riconosco che io sono stato un bravo figlio, molto devoto. Forse è anche per questo che di figli non ne ho avuti».

Gabriele Salvatores: “A Milano cartelli contro i napoletani quando arrivai”

Oggi vorrebbe averne avuto almeno uno?
«Forse sì. Ma con le due donne più importanti della mia vita, Corinna Agustoni e la mia attuale compagna, Rita Rabassini, per motivi diversi abbiamo deciso di non averne. Corinna non ne voleva e Rita, quando ci siamo messi assieme, aveva già Marta».

Marta, che è figlia di Rita e di Diego Abatantuono.
«Sì, come molti sanno conobbi Rita frequentando Diego, e sa qual è la cosa divertente oggi? Che per i tre bambini di Marta lui è, giustamente, “nonno”, mentre io sono “nonno bis”. Quel serpentone di Diego, però, si diverte a chiamarmi “bisnonno”».

Torniamo al Salvatores con i capelli lunghi.
«Compii diciotto anni nel 1968, quando si contestavano i professori e nelle università si abolivano gli esami per inscenare drammi teatrali. Io mi avvicinai al movimento studentesco tramite Mario Capanna e ricordo bene che cosa voleva dire fare teatro. La mia prima sala prove è stato il centro sociale Leoncavallo. Fondammo l’Elfo nel 1972 e, mi creda, davvero per noi l’arte non era un divertimento o un esercizio di stile, ma era un modo di cambiare il mondo. Ecco perché da quella generazione sono nati registi come Nanni Moretti o Giuseppe Tornatore e, sì, mi ci metto anche io».

Autarchici.
«Del tutto. La generazione precedente, quella dei Bertolucci o di Fellini, andava invecchiando, noi dovevamo inventare qualcosa di nuovo. Con Nanni ancora oggi c’è un bel rapporto, anche se quando passai dal teatro al cinema mi accolse con fare burbero. “Nanni, sai che abbiamo fondato una società di produzione, la Colorado?”, gli dissi. E lui: “Il Colorado è lontano da Vienna, dove si fa la Sacher”. Pensi che fino a poco tempo fa, ad ogni film che faceva gli inviavo un telegramma».

Gabriele Salvatores: “Oscar? Pensavo fosse uno scherzo quando me lo hanno comunicato”

Non tutti lo sanno, ma lei ha ispirato uno dei personaggi più belli di Paolo Rossi, Kowalski. Che rapporto ha con Paolo?
«Lui è geniale, completamente folle, è quello che avrei voluto diventare io se non fossi stato bloccato da questa maledetta ansia. Una volta mentre stavamo girando l’Italia con Comedians, Paolo mi fece uno scherzo: entrai in camerino e lo vidi mentre aspirava una enorme quantità di polvere bianca. Mi spaventai a morte, ma alla fine scoprii che era gesso e farina».

[…] Una volta però ha rischiato grosso. Lei si infatuò di un’altra e Rita se ne andò.
«Ma lasciò una porta aperta e così io decisi che l’avrei riconquistata. Impiegai due anni: telefonate, lettere, biglietti. Arrivai anche ad acquistare una piccola casa vicina a quella dove abitava lei. Volevo essere una presenza costante ma discreta. Ci sono riuscito e oggi la devo ringraziare perché Rita tiene a bada la mia ansia, mi riporta con i piedi per terra, non si lascia sedurre dai miei voli pindarici».

[…] Che cosa pensò nel 1992 quando le dissero che aveva vinto un Oscar?
«Ovviamente pensai a uno scherzo ma realizzai appieno solo quando, nei bagni del Dorothy Chandler Pavilion, a Los Angeles, incontrai il regista super favorito che era stato sconfitto, Zhang Yimou, in gara con il meraviglioso Lanterne Rosse. Io, con la statuetta in mano, mi avvicinai per dirgli che mi spiaceva, ma lui si voltò e mi disse qualcosa in cinese. Non capii nulla, ma non era qualcosa di amichevole».

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