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Spettacolo

Giovanna Botteri: “Molestie? Non generalizziamo, papà di oggi meglio dei nostri per questi motivi. Dalla guerra ho imparato ad amare la pace”

Giovanna Botteri: “Molestie? Non generalizziamo, papà di oggi meglio dei nostri per questi motivi. Dalla guerra ho imparato ad amare la pace”. Giovanna Botteri su molestie, guerra, e non solo, la giornalista triestina, 66 anni, si racconta ripercorrendo le tappe della sua carriera in una intervista a ‘Io Donna’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Boomer – abbreviazione di Baby Boomer (chi è nato fra il 1946 e il 1964) – per la Treccani è usato in senso ironico e spregiativo dai Millennials e dalla Gen Z: un po’ l’equivalente del (boomerissimo) “matusa”. Per qualcuno, invece, è sinonimo di “generazione fortunata”.
“Ecco, in questa definizione sì, mi riconosco: abbiamo davvero creduto che il futuro fosse nostro. Se lavoravi, se ti sacrificavi, se lottavi, se tenevi duro i tuoi sogni sarebbero diventati realtà. Sono nata in una città provinciale come Trieste e guardando il golfo immaginavo il mondo al di là dell’orizzonte: avrei potuto conquistarlo […] Sapevamo che non c’era giustizia, che andavano avanti i raccomandati, gli scorretti, ma non conoscevamo la rassegnazione: avremmo liquidato noi il sistema! Eravamo cresciuti con l’idea dell’happy end: i buoni avrebbero vinto. Personalmente, ho ancora adesso questa convinzione”.

Sua figlia, trentaquattrenne, invece no?
“Di sicuro non quanto me. E l’incertezza si estende a vari campi, inclusi i rapporti con l’altro sesso. Oggi – periodo di femminicidi, stupri, violenza, molestie – le ragazze hanno un’immagine orribile del maschio. Le ripeto: non generalizziamo, in ufficio ho colleghi trentacinquenni che sono padri meravigliosi, condividono l’impegno, dai pannolini della spesa. Compagni migliori dei nostri, che avranno lavato sì e no un piatto. Ci sono elementi forti di speranza, per quanto riconosca che, sul lavoro, noi Boomers siamo stati privilegiati: abbiamo fatto carriera, mentre le generazioni successive faticano ad affermarsi. La pressione è maggiore”.

Giovanna Botteri: “Molestie? Non generalizziamo, papà di oggi meglio dei nostri per questi motivi”

[…] La sua prima ribellione?
“Se veniva qualcuno, io proclamavo: “Sono la bambina più infelice del mondo””.

E lo era?
“Mi infastidiva l’aspettativa che, in quanto bambina, fossi contenta per forza. L’infelicità mi pareva un’autoaffermazione di indipendenza, con un tocco romantico…”.

Il suo rapporto con il femminismo?
“Ho iniziato giovanissima a frequentare i gruppi dove le grandi, le sorelle maggiori, raccontavano le loro esperienze anche su temi come l’aborto. Racconti dell’orrore: i ferri da calza, la mammana… Formativa è stata pure la battaglia per i consultori familiari: donne di estrazione, età, provenienze diverse, dai vissuti complicati, avevano modo di incontrarsi e confrontarsi”.

[…] Il debutto nel giornalismo?
“Tramite la scuola dove studiavo francese, avevo vinto una borsa di studio agli Ateliers Varan di Parigi, un centro di formazione per documentaristi. E lì mi sono appassionata, ho cominciato a concepire la scrittura per immagini, ho imparato a filmare in Super 8. La città offriva la possibilità di incontri pazzeschi. Comprato un registratore al mercato delle pulci, mi sono improvvisata reporter: ho intervistato per l’Alto Adige e il Piccolo Alexandre Trauner, lo scenografo di Billy Wilder, e uno scrittore che amavo, Danilo Kiš, montenegrino come mia madre”.

E la tv?
“Mi hanno chiamato a Trieste per una serie di piccoli contratti con Rai 3 e, dopo un programma sull’astrofisica assieme a Margherita Hack, è arrivata l’offerta da Roma. Qualche collaborazione, l’esperienza con Michele Santoro a Samarcanda e, dopo la nascita di mia figlia, la redazione esteri del Tg3. Nel 1992, allo scoppio della guerra in Bosnia, il direttore Sandro Curzi mi dice: “Vai e raccontami quello che vedi, tu conosci un po’ la lingua”. È così che sono diventata inviata di guerra”.

Giovanna Botteri: “Dalla guerra ho imparato ad amare la pace”

C’erano poche donne, allora.
“Pochissime, e nessuna con figli. Era un mestiere da maschi: la guerra la facevano i maschi e la raccontavano i maschi. La nostra entrata ha cambiato la narrativa, abbiamo cominciato a focalizzarci non su chi la guerra la fa, ma su chi la subisce: i civili, i profughi, le vittime”.

Come viveva tra il rischio e il pensiero della sua bambina?
“Essere madre è quel che mi ha salvato, mi ha “ancorato”. Sei consapevole che c’è una linea rossa che non puoi oltrepassare: non devi morire. Dopo le Torri Gemelle ero in Pakistan e mi preparavo a entrare in Afghanistan con alcuni colleghi, fra cui Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera. Mia figlia mi ha chiesto: “Torna”. Sono tornata, e per questo sono viva… Comunque il problema non è finché i bambini sono piccoli, è l’adolescenza: e là ho deciso di fermarmi a Roma tre anni a condurre il tg, per poi trasferirmi con Sarah – in pianta stabile – a New York”.

Ha un modo molto partecipato di porgere le notizie. Emotività o tecnica?
“Nessuna tecnica. Tu vedi il disastro sopraggiungere e, come la Sibilla Cumana, vorresti urlare: “Fermate fermate fermate!””.

Il disastro non si ferma, lo vediamo in questi giorni.
“Dalla guerra ho imparato ad amare la pace. Sembra scontato, non lo è: quando vivi in pace, la consideri un valore acquisito. Invece è una conquista straordinaria”.

A distanza di tre anni, riflessioni su Striscia la notizia e l’ironia riservata al suo look?
“Dopo lo stupore (con la pandemia ci si interessava al mio aspetto?!?), mi ha colpito l’effetto “vaso di Pandora”: donne – e uomini – mi hanno scritto per solidarietà, confessando di essere stati presi di mira in nome della “perfezione”. Perfetti in base a quali canoni? E chi li fissa? Si è rivelato un dibattito liberatorio per tutti”.

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