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Spettacolo

Cesare Cremonini: “Grazie alla musica ho capito una cosa importante. Empatia una canzone con il tasto mute…”

Cesare Cremonini sulla musica e non solo, l’intervista a ‘Vanity Fair’

Cesare Cremonini: “Grazie alla musica ho capito una cosa importante. Empatia una canzone con il tasto mute…”. Il cantautore si racconta a cuore aperto in una intervista rilasciata ai microfoni della rivista ‘Vanity Fair’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Ricorda le sue prime emozioni?
«Ho iniziato a capire che cosa erano le emozioni importanti della mia vita un po’ prima dei miei compagni di classe e l’ho capito grazie alla musica. Studiavo Beethoven, studiavo Chopin, studiavo gli autori romantici del mondo della musica classica e in queste opere sentivo uno struggimento, una gioia, persino un’ironia, un grumo di sentimenti complessi che in un’età in cui la vita non era altro che svegliarsi, andare a scuola, fare i compiti, giocare e andare a letto, rappresentavano un corpo complesso da gestire».

Che ruolo ebbe lo studio del pianoforte?
«Abbandonai molto presto l’idea che fosse un esercizio borghese dettato dalle scelte e dalle tradizioni della mia famiglia e capii che era una strada da percorrere, molto oscura, molto profonda e del tutto personale. Quella scoperta precedette la successiva, non meno importante».

Quale?
«Che la musica è uno dei più grandi collanti che esista tra gli esseri umani e che può accorciare le distanze tra noi e gli altri. Ti fa conquistare un amore, ti permette di accendere l’attenzione del prossimo, restituisce agli altri l’illusione che la profondità della musica che suoni sia la tua stessa profondità».

Non è vero?
«Non sempre. La musica – e qui parlo soltanto di me – è un mezzo che mi eleva e mi rende più grande di quel che sono perché la musica è uno strumento e quando ne conosci le doti e i segreti lo puoi utilizzare a tuo vantaggio».

Cos’è la musica per lei?
«Se la dovessi definire in maniera un po’ maldestra direi che la musica è una forma di intelligenza messa a disposizione di milioni di persone non necessariamente intelligenti. Se intelligenza significa inter-legere, guardare dentro, riuscire a leggere attraverso, che miliardi di persone lo possano fare attraverso la musica a me appare un miracolo».

Da ragazzo inseguiva la semplicità ottenendo un enorme successo. Oggi, dopo essere entrato e uscito da quella che ha sempre definito una «cornice culturale», ha mantenuto il suo pubblico trasformandosi in uno dei più apprezzati autori italiani. C’è stata un’evoluzione?
«Non mi piace pensarla in questo modo e faccio sempre fatica a dividere la musica colta da quella meno colta. Altrimenti, a spiegare come si possano ascoltare canzoni in lingue sconosciute e ad amarle, andrei in serie difficoltà. Musica e parole sono emozioni. Ci scuotono. Ci fanno vibrare. Decidere di essere qualcosa, un cantante pop o un autore che si pretende “alto” è un concetto troppo cerebrale, troppo razionale, troppo programmatico. E non ho mai creduto alla semplicità o alla ricerca della poesia a ogni costo. Una cosa però la so».

Quale?
«Che la mia musica deriva comunque dalla memoria. In fondo le muse, da cui deriva poi la stessa parola musica, erano le figlie della dea della memoria. La memoria per me è molto importante. Sono quasi certo che quando finiranno i miei ricordi, quando li avrò bruciati, dispersi o sprecati, finiranno anche le parole che ho da dire e finirà probabilmente anche la forma-canzone che ho sperimentato fino ad adesso. Allora forse mi dedicherò ad altro, spero sempre intorno alla musica».

Cosa ha capito della musica diventando adulto?
«Un tempo pensavo che la musica fosse una specie di bandiera: un vessillo che i cantanti sventolavano come un simbolo da portare in giro. In seguito ho iniziato a percepire la musica come una cosa completamente opposta e ho sempre più la sensazione che sia lei a farci annegare, a innalzarci piano piano come fosse una marea, a prenderci, ad avvolgerci e a volte a superarci andando oltre. Ho l’impressione che non sia un’entità che possiamo controllare così tanto. È lei che entra negli anfratti della società, lei che decide, lei che muove il cavallo sulla scacchiera. Non la fermi. Non la freni. Va. Va e basta».

«Ama la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso», sostiene Dostoevskij.
«Ho avuto sempre la necessità di capire quello che stavo provando e che cosa potevo comprendere di quel che mi stava succedendo attraverso l’invenzione di una canzone, ma non mi sono mai del tutto affidato a quello. Ho sempre avuto la tentazione che il dolore mi attraversasse senza affidarmi totalmente a lui e ho lasciato che fossero un libro, una canzone o un film a farmi comprendere meglio quello che stavo sentendo e a trasformarlo. Non mi sono mai abbandonato totalmente all’idea che la vita sia quel dolore o quella gioia, ma ho sempre aspettato che fosse l’arte, anche quella del vivere, a indicarmi il percorso. Per me anche una chiacchierata è musica perché a essere davvero fondamentale è lo scambio».

La musica l’ha fatta sentire meno solo?
«La musica è un’interlocutrice straordinaria. Non ho mai avuto la sensazione di essere solo nella vita, perché ho sempre pensato che all’interno di una giornata, di una settimana o di un mese avrei sperimentato quello che provavo insieme alla musica. Non esiste niente che cambi più in profondità il rapporto con la propria sensibilità».

È ancora convinto che se non si riesce a entrare nella vita di un altro sia impossibile scrivere una canzone?
«L’empatia è una canzone che non è stata ancora scritta ma è già lì. È una canzone con il tasto mute. Il resto, tutto il resto, lo fa la vita».

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